Gardin, così ho catturato i mostri a Venezia
Gardin, così ho catturato i mostri a Venezia
Piero Negri
La Stampa
11/07/2014
Il grande fotografo ha documentato con i suoi scatti l’invasione delle mega navi passeggeri in Laguna: “Un atto di denuncia e d’amore”
Una delle fotografie di Gianni Berengo Gardin esposte a Milano nella rassegna «Mostri a Venezia». Da oggi al 28 settembre a Villa Necchi Campiglio, via Mozart 14; orari: mercoledì-domenica 10-18
Trovare i soggetti da fotografare non è stato un problema: «Ci sono stati giorni – racconta Gianni Berengo Gardin – in cui tra arrivi e partenze mi sono passate anche sedici navi sotto gli occhi». Bastava svegliarsi all’alba per avere davanti a sé - e nell’obiettivo - lo spettacolo terrificante dei colossi delle crociere nel Canale della Giudecca, a Venezia.
«Alle sei del mattino ero lì ad aspettarle all’ingresso del porto. L’uscita era molto più comoda, tra le cinque e le sette della sera».
«Alle sei del mattino ero lì ad aspettarle all’ingresso del porto. L’uscita era molto più comoda, tra le cinque e le sette della sera».
Dice che la mostra che inaugura oggi a Milano è «un atto di denuncia e un gesto d’amore» e si capisce che nulla, se non l’amore, può spingere un grande fotografo come Berengo Gardin, oggi ottantatreenne, ad appostarsi alle prime luci del mattino per scattare - tra il 2012 e il 2014 - le trecento immagini in bianco e nero dalle quali ha poi selezionato le 27 dell’esibizione.
«Fino ai quindici anni - racconta - ho passato a Venezia buona parte delle vacanze estive. Poi mi sono trasferito lì e ci ho vissuto fino al 1965. In Laguna ho trascorso gli anni della formazione, a Venezia sono nati mio padre, mia moglie e i miei figli. È l’amore per la città che mi ha quasi obbligato a realizzare questo reportage, che non aveva alcun committente. È stata un’idea mia, che ho portato a conclusione da solo: avrei voluto mostrarlo prima di tutto dove sono nate le immagini, ma dalle istituzioni locali non ho avuto risposta. Forse per difendere i posti di lavoro legati alle navi da crociera, la città non affronta volentieri la questione. Al mio invito aveva aderito solo una piccola galleria, alla quale ho dovuto dire di no: volevo che il lavoro avesse un impatto diverso, più forte, ed è per questo che, grazie al Fondo ambiente italiano, il Fai, faccio la mostra a Milano».
Il titolo è «Mostri a Venezia», la sede è la Villa Necchi Campiglio: la mostra, senza didascalie («Mi è parso che il messaggio fosse già chiarissimo così») è aperta fino al 28 settembre, da mercoledì a domenica, dalle 10 alle 18. «Si tratta - dice netto Berengo Gardin - di un lavoro di denuncia. Ho fatto spesso reportage sociali, ma come questo forse soltanto uno, Morire di classe, nel 1968, con Carla Cerati, ispirato da Franco Basaglia, un viaggio nell’inferno degli ospedali psichiatrici, dei “manicomi”, come si diceva allora. È chiaro che queste immagini sono molto meno drammatiche, qui la vittima non è una persona ma la bellezza. Il passaggio delle grandi navi passeggeri aggredisce un equilibrio ambientale già fragile, e alle fondamenta di Venezia fa danni che non vediamo ma che sono potenzialmente gravissimi. Sono immagini fuori scala, forti, un po’ assurde, che sembrano artificiali, modificate con Photoshop. E invece sono pura e semplice realtà».
È come se si chiudesse un cerchio. Tra i duecentocinquanta libri fotografici che ha pubblicato in cinquant’anni di lavoro, quello che lo lanciò era dedicato a Venezia: «Uscì nel 1965 per un editore svizzero - dice Berengo Gardin - con testi di Giorgio Bassani e Mario Soldati raccontava una città che oggi non esiste più. E la differenza tra questi due lavori segna esattamente il passaggio da quel tempo al nostro: allora la città apparteneva ai veneziani, oggi appartiene ai turisti. Non è cambiato, invece, il mio punto di vista, che è quello del racconto. Le mie foto non sono assolutamente artistiche, con i miei reportage ho sempre e solo avuto l’obiettivo di testimoniare la mia epoca, di documentare ciò che mi sta intorno».
Né attualità né arte, Berengo Gardin, sempre fedele al bianco e nero e alla pellicola, percorre la strada stretta della testimonianza: «Non rifiuto il digitale per ideologia, ma perché l’immagine su pellicola mi pare ancora di qualità nettamente superiore, più ricca e più plastica. E poi perché il digitale spinge a fotografare troppo. Qui a Milano si vede la pubblicità di una macchina che dice: “Non pensare, scatta!”. Ecco, io invece ai miei allievi raccomando il contrario: prima di tutto, pensate. E se veramente è il caso, solo se davvero vi sembra opportuno, poi scattate».
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