La notte di Pompei. Le rovine valgono meno dei rifiuti
il Riformista 1.2.09
Occasioni perdute Gli scavi commissariati rendono poco, nell'indifferenza generale
La notte di Pompei. Le rovine valgono meno dei rifiuti
di Adolfo Scotto di Luzio
PATRIMONI. Un libro di Alain Jaubert edito da Gallimard restituisce la sensuale vitalità meridionale messa a dura prova dalla crisi di Napoli. Ma non basta: è ancora possibile sentire la cultura non solo come emozione ma come coscienza di una identità nazionale? Della prestigiosa area archeologica viene sfruttato solo il 5% del potenziale business. È sufficiente il mito anglosassone della «gestione delle risorse», o manca un tassello meno tecnico?
Una notte d'estate, un uomo e due donne, a spasso per gli scavi di Pompei, si abbandonano ad ogni sorta di gioiosa lascivia che, come spiega la più giovane, Anna Maria, i romani riassumevano in cinque verbi: futuere, pedicare, fellare, lingere, irrumare. Naturalmente bevono champagne. È questa la Nuit à Pompei che, su uno sfondo glamour e chic internazionale, dà il titolo al romanzo di Alain Jaubert, uscito di recente in Francia per Gallimard, culmine dell'amorosa inchiesta cominciata quarant'anni prima dal protagonista proprio nei vicoli di Napoli, giovanissimo e solitario viaggiatore.
Scontata qualche ingenuità, il libro di Jaubert è molto interessante. Già il tema scelto, la memoria dell'antico, la vitalità e la sensualità meridionale, convenzionale quanto vi pare appartiene però ad una convenzione poco usuale di questi tempi di predominante leggenda nera sulla città, che anche in Francia ha i suoi adepti. Nel romanzo di Jaubert al contrario tutto si arrangia con leggerezza. La storia scompare e la natura prende il sopravvento. Il romanzo finisce come inizia, con lo sguardo fisso al Vesuvio, immobile, eterno, fertile. Sovranamente indifferente all'umanità brulicante ai suoi piedi.
Questa predominanza è l'espressione di uno sguardo che riduce il Sud, come un tempo l'Italia intera, alla condizione di una terra dolcemente morta alla storia. Eppure il sentimento del paesaggio italiano e napoletano in particolare è sincero, si nutre di una perlustrazione amorosa dei luoghi, restituiti con precisione al lettore. Il romanzo di Jaubert si fa leggere soprattutto perché con un'assoluta mancanza di pudore lo scrittore sceglie un tema gigantesco, quello del rapporto con l'antico come specchio dell'identità dell' uomo moderno, europeo settentrionale, individualista e solitario, colto nel riflesso della diversità di un Sud tradizionale, cattolico e mediterraneo.
Ho ripensato al romanzo di Jaubert dopo la lettura del profilo «americano» che il 12 gennaio di quest'anno il Wall Street Journal ha tracciato di Mario Resca, l'uomo di Sandro Bondi alla gestione del patrimonio museale e archeologico del nostro paese. E non perché, come perfidamente suggerisce l' Economist, il linguaggio manageriale dell' ex boss di Mc Donald Italia assimila i musei ad una «big factory». Piuttosto, nella nuova fase della modernizzazione italiana com'è quella che stiamo attraversando, la scelta del ministro dei beni culturali ripropone un'alternativa tra la mentalità del Nord (genericamente anglosassone) e l' arretratezza meridionale che è stata centrale nel modo con cui gli italiani hanno pensato alla loro mancata modernità. Di fronte ai dati dei visitatori nei nostri musei, Mario Resca ha imparato a reagire come i viaggiatori inglesi all' inizio dell' Ottocento di fronte allo spettacolo della campagna romana. Come ad un problema di efficienza del suo sfruttamento. Parlando di Pompei, ad esempio, Resca nota lo scarto troppo grande tra il potente richiamo della sua memoria e la capacità del sito archeologico di attrarre turisti. Tempo fa quelli di Merryl Lynch hanno calcolato che la ricchezza prodotta da Pompei è appena il 5% del suo potenziale. Naturalmente è decisivo il modo in cui si gestisce un patrimonio culturale. Ma resta inevasa un'altra questione: il senso del rapporto che stabiliamo con il nostro passato.
Proprio le vicende di Pompei sono significative da questo punto di vista. Tra le tante cose di cui i napoletani hanno dato prova di non avere cura ci sono appunto gli scavi. In una città che nel corso del 2008 ha visto molte delle sue istituzioni politiche e civili sottratte alla incapacità di gestirsi dei suoi abitanti, è arrivato anche il commissariamento del sito archeologico più celebre del mondo. Dico dei napoletani perché è impossibile attribuire le condizioni in cui versano gli scavi alla responsabilità del sovrintendente e, oggi, del commissario. L'urgenza che ha mosso il governo è tutta del degrado circostante, che rischiava e rischia di sommergere i resti della città romana sotto l'impeto di un vulcano più minaccioso del Vesuvio, perché è fatto di un disprezzo per la storia degli uomini di cui gli uomini sono gli unici responsabili.
Le immagini del degrado sono state diffuse ampiamente. Gli scavi vi appaiono insidiati da una città che penetra con il suo disordine e il suo malcostume il tracciato dell' insediamento antico. Pompei è l'occasione per mille piccoli arricchimenti senza ricchezza, come di chi si azzuffa per arraffare quanto può dei denari fatti circolare dall'enorme afflusso di turisti, in calo nel 2008 ma sempre più di due milioni in un anno: i parcheggiatori come dei questuanti; l'assenza di sorveglianza fuori e la sua grave carenza dentro il sito archeologico, e poi le guide che litigano per i gruppi di visitatori, i pagamenti in nero, i modi sgarbati del personale; i mille ricatti sindacali, con migliaia di visitatori in fila ad attendere la fine di un'assemblea, le decisioni di una corrente, il beneplacito di un capobastone. Miseria che produce miseria.
Quello che mi colpisce è il moltiplicarsi di atteggiamenti di disaffezione e di indifferenza che tradiscono il dissolversi del legame concreto di una comunità con il suo patrimonio storico e artistico.
Per conservare qualcosa, qualsiasi cosa, bisogna averne il sentimento che non è una generica e lacrimevole disponibilità a lasciarsi emozionare ma è coscienza e dunque cultura. Altrimenti le cose prima o poi si perdono, come si dice di solito, per nascondersi un abbandono, di tutti quegli oggetti di un passato che abbiamo smesso di riconoscere come nostro e che ad un tratto non troviamo più. Dei beni culturali si parla spesso e molto giustamente come di un' occasione di ricchezza materiale, mai come dell' elemento cruciale nella definizione dell'identità degli italiani.
Occasioni perdute Gli scavi commissariati rendono poco, nell'indifferenza generale
La notte di Pompei. Le rovine valgono meno dei rifiuti
di Adolfo Scotto di Luzio
PATRIMONI. Un libro di Alain Jaubert edito da Gallimard restituisce la sensuale vitalità meridionale messa a dura prova dalla crisi di Napoli. Ma non basta: è ancora possibile sentire la cultura non solo come emozione ma come coscienza di una identità nazionale? Della prestigiosa area archeologica viene sfruttato solo il 5% del potenziale business. È sufficiente il mito anglosassone della «gestione delle risorse», o manca un tassello meno tecnico?
Una notte d'estate, un uomo e due donne, a spasso per gli scavi di Pompei, si abbandonano ad ogni sorta di gioiosa lascivia che, come spiega la più giovane, Anna Maria, i romani riassumevano in cinque verbi: futuere, pedicare, fellare, lingere, irrumare. Naturalmente bevono champagne. È questa la Nuit à Pompei che, su uno sfondo glamour e chic internazionale, dà il titolo al romanzo di Alain Jaubert, uscito di recente in Francia per Gallimard, culmine dell'amorosa inchiesta cominciata quarant'anni prima dal protagonista proprio nei vicoli di Napoli, giovanissimo e solitario viaggiatore.
Scontata qualche ingenuità, il libro di Jaubert è molto interessante. Già il tema scelto, la memoria dell'antico, la vitalità e la sensualità meridionale, convenzionale quanto vi pare appartiene però ad una convenzione poco usuale di questi tempi di predominante leggenda nera sulla città, che anche in Francia ha i suoi adepti. Nel romanzo di Jaubert al contrario tutto si arrangia con leggerezza. La storia scompare e la natura prende il sopravvento. Il romanzo finisce come inizia, con lo sguardo fisso al Vesuvio, immobile, eterno, fertile. Sovranamente indifferente all'umanità brulicante ai suoi piedi.
Questa predominanza è l'espressione di uno sguardo che riduce il Sud, come un tempo l'Italia intera, alla condizione di una terra dolcemente morta alla storia. Eppure il sentimento del paesaggio italiano e napoletano in particolare è sincero, si nutre di una perlustrazione amorosa dei luoghi, restituiti con precisione al lettore. Il romanzo di Jaubert si fa leggere soprattutto perché con un'assoluta mancanza di pudore lo scrittore sceglie un tema gigantesco, quello del rapporto con l'antico come specchio dell'identità dell' uomo moderno, europeo settentrionale, individualista e solitario, colto nel riflesso della diversità di un Sud tradizionale, cattolico e mediterraneo.
Ho ripensato al romanzo di Jaubert dopo la lettura del profilo «americano» che il 12 gennaio di quest'anno il Wall Street Journal ha tracciato di Mario Resca, l'uomo di Sandro Bondi alla gestione del patrimonio museale e archeologico del nostro paese. E non perché, come perfidamente suggerisce l' Economist, il linguaggio manageriale dell' ex boss di Mc Donald Italia assimila i musei ad una «big factory». Piuttosto, nella nuova fase della modernizzazione italiana com'è quella che stiamo attraversando, la scelta del ministro dei beni culturali ripropone un'alternativa tra la mentalità del Nord (genericamente anglosassone) e l' arretratezza meridionale che è stata centrale nel modo con cui gli italiani hanno pensato alla loro mancata modernità. Di fronte ai dati dei visitatori nei nostri musei, Mario Resca ha imparato a reagire come i viaggiatori inglesi all' inizio dell' Ottocento di fronte allo spettacolo della campagna romana. Come ad un problema di efficienza del suo sfruttamento. Parlando di Pompei, ad esempio, Resca nota lo scarto troppo grande tra il potente richiamo della sua memoria e la capacità del sito archeologico di attrarre turisti. Tempo fa quelli di Merryl Lynch hanno calcolato che la ricchezza prodotta da Pompei è appena il 5% del suo potenziale. Naturalmente è decisivo il modo in cui si gestisce un patrimonio culturale. Ma resta inevasa un'altra questione: il senso del rapporto che stabiliamo con il nostro passato.
Proprio le vicende di Pompei sono significative da questo punto di vista. Tra le tante cose di cui i napoletani hanno dato prova di non avere cura ci sono appunto gli scavi. In una città che nel corso del 2008 ha visto molte delle sue istituzioni politiche e civili sottratte alla incapacità di gestirsi dei suoi abitanti, è arrivato anche il commissariamento del sito archeologico più celebre del mondo. Dico dei napoletani perché è impossibile attribuire le condizioni in cui versano gli scavi alla responsabilità del sovrintendente e, oggi, del commissario. L'urgenza che ha mosso il governo è tutta del degrado circostante, che rischiava e rischia di sommergere i resti della città romana sotto l'impeto di un vulcano più minaccioso del Vesuvio, perché è fatto di un disprezzo per la storia degli uomini di cui gli uomini sono gli unici responsabili.
Le immagini del degrado sono state diffuse ampiamente. Gli scavi vi appaiono insidiati da una città che penetra con il suo disordine e il suo malcostume il tracciato dell' insediamento antico. Pompei è l'occasione per mille piccoli arricchimenti senza ricchezza, come di chi si azzuffa per arraffare quanto può dei denari fatti circolare dall'enorme afflusso di turisti, in calo nel 2008 ma sempre più di due milioni in un anno: i parcheggiatori come dei questuanti; l'assenza di sorveglianza fuori e la sua grave carenza dentro il sito archeologico, e poi le guide che litigano per i gruppi di visitatori, i pagamenti in nero, i modi sgarbati del personale; i mille ricatti sindacali, con migliaia di visitatori in fila ad attendere la fine di un'assemblea, le decisioni di una corrente, il beneplacito di un capobastone. Miseria che produce miseria.
Quello che mi colpisce è il moltiplicarsi di atteggiamenti di disaffezione e di indifferenza che tradiscono il dissolversi del legame concreto di una comunità con il suo patrimonio storico e artistico.
Per conservare qualcosa, qualsiasi cosa, bisogna averne il sentimento che non è una generica e lacrimevole disponibilità a lasciarsi emozionare ma è coscienza e dunque cultura. Altrimenti le cose prima o poi si perdono, come si dice di solito, per nascondersi un abbandono, di tutti quegli oggetti di un passato che abbiamo smesso di riconoscere come nostro e che ad un tratto non troviamo più. Dei beni culturali si parla spesso e molto giustamente come di un' occasione di ricchezza materiale, mai come dell' elemento cruciale nella definizione dell'identità degli italiani.
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