L'arte eterna del potere temporale. La strumentalizzazione politica delle opere antiche scandisce la storia
Corriere della Sera 7.12.11
L'arte eterna del potere temporale. La strumentalizzazione politica delle opere antiche scandisce la storia
Francesca Bonazzoli
Ansioso di ricevere da Roma i marmi antichi dei Borghese, il direttore dei musei imperiali Vivant Denon ricordava al generale Bonaparte che doveva essere «il primo sovrano d'Europa» e che «il secolo di Napoleone deve essere il secolo delle belle arti come è quello degli eroi». Denon non faceva altro che riproporre l'uso dell'antico come prestigiosa patente di legittimazione del potere già praticato dagli stessi imperatori romani che importavano da Atene le statue greche e ne ordinavano copie per nobilitare la loro autoritas, così come Virgilio aveva fatto risalire la nascita di Roma al greco Enea.
Salvo la parentesi dell'alto Medio Evo (e quella dei nostri tempi), l'uso politico dell'arte antica non ha mai conosciuto interruzioni. Dopo la febbre della Roma imperiale, la mania antiquaria riesplose nel Quattrocento, quando vediamo Isabella d'Este impegnata «in recogliere cose antique per honorare el mio studio». Già all'epoca, però, non era facile procurarsi i marmi che si scavavano per lo più a Roma e avevano prezzi alti: per strappare al Mantegna il busto della Faustina che l'anziano pittore, oppresso dai debiti, si trovò costretto a vendere, alla marchesa servirono sei mesi di mercanteggiamenti. Fu allora che cominciò la fortuna dei copisti come Pier Jacopo Alari Bonacolsi, detto l'Antico proprio perché gettava copie in bronzo in scala ridotta degli originali antichi.
Anche a Firenze Cosimo de Medici «aveva avuto di Roma molte anticaglie» e suo nipote Lorenzo aveva collocato nei portici e nel giardino del palazzo le statue su cui si formò il giovane Michelangelo. Le raccolte cominciavano a ingrandirsi e, sul modello degli antichi horti e atria, i collezionisti allestivano nuovi spazi che, collocati all'esterno, conferivano lustro al proprietario. Anche l'allestimento diventava importante e spesso affidato a nomi prestigiosi come quello di Michelangelo che, per il palazzo Farnese, pensò ad appositi spazi che enfatizzassero i capolavori antichi come il Toro e l'Ercole Farnese che la famiglia raccoglieva per promuovere la romanità del casato.
A sua volta, nel 1503, Giulio II aveva incaricato Bramante di progettare un cortile destinato ad accogliere le statue più celebrate nell'intera Europa: l'Apollo, la Cleopatra, il Commodo-Ercole, l'Ercole e Anteo, il Laocoonte, il Tevere, il Nilo, il Torso, la Venus felix. Nelle mani dei papi finiva il meglio di tutto quello che si rinveniva nell'Urbe, come appunto il Laocoonte, scavato nel 1506 in una vigna vicino a Santa Maria Maggiore da tale Felice de Fredis. La scoperta fece subito il giro del mondo nelle corrispondenze degli ambasciatori e fu considerata eccezionale perché vi si riconobbe l'originale greco di cui Plinio aveva scritto nella Naturalis Historia affermando che si trovava nella villa dell'imperatore Tito. Nemmeno il re di Francia Francesco I, che pure si era affrettato ad avanzare offerte, riuscì a spuntarla sul Papa il quale, per non offenderlo, gli concesse una copia in marmo, la prima in scala al vero di una grande statua antica che però Clemente VII decise di tenere per sé. E proprio le repliche delle statue del cortile del Belvedere che si trovavano in tutti i più ricchi palazzi d'Europa dimostrano l'uso politico dell'antico che si serviva dell'esibizione di alcune statue esemplari, consacrate da una catena di prestigiosi possessori. Le stesse di cui Luigi XIV, quando trasferì la corte a Versailles, ordinava copie così come farà ancora Pietro il Grande alla ricerca, per fondare e dare lustro alla nuova capitale dell'Impero, dei capolavori più ammirati, come l'Antinoo del Belvedere. Nella sua Analysis of Beauty, Hogarth poteva così scrivere che certe statue antiche erano ben più conosciute di qualsiasi pezzo moderno e nel 1875 la guida Baedeker citava la Venere di Milo come «il più celebrato tra i tesori del Louvre», dedicandogli più spazio di quello riservato alla Gioconda.
Poi le fortune dell'antico cessarono. L'ultimo a subirne il fascino fu quell'Adolf Hitler che sognava la ricostruzione di Berlino come una nuova Atene: dopo un intero anno di insistenze e rifiuti, nel 1938 Galeazzo Ciano gli vendette finalmente il Discobolo, copia romana dell'originale greco di Mirone, scoperta nel 1871 sull'Esquilino, un simbolo dell'antichità con cui Hitler voleva legittimare il Terzo Reich come l'erede del prestigioso passato dell'Impero romano. Per la cronaca, il Discobolo è tornato in Italia nel '48 e si trova al Museo nazionale alle Terme, molto meno visitato della Gioconda.
Commenti