Hillman, lo sciamano dell’anima

l’Unità 29.10.11
Hillman, lo sciamano dell’anima
È morto a 85 anni lo psicoanalista e filosofo americano. Allievo di Jung ha re-immaginato l’analisi junghiana riportandola nel mondo. Paladino di una psicologia ecologica non voleva curare i singoli, ma «la civiltà»
di Romano Màdera

Nel 1989 lascia l’attività: basta parlare all’io, vuole la città come interlocutore

È morto James Hillman, uno dei pochi psicoanalisti che si era impegnato in un’impresa straordinaria quanto stravagante, forse infantile o donchisciottesca: curare la civiltà, non più i singoli pazienti! Si può dire che la psicoanalisi ci ha sempre provato, ma senza dirselo, perché in fondo il cambiamento di pochi individui, diventati più attenti alle proiezioni del male sugli altri, più disposti a cercare faticosamente la verità su se stessi, dovrebbero essere anche più capaci di autocritica e di tolleranza. Ma insomma, cambiare il mondo non è compito di un analista, la politica deve rimanere fuori dallo studio.
E invece, all’apice del successo, Hillman, nel 1993, ha osato scrivere Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio. Si è interrogato su quello sguardo psicologico che chiude le finestre sul mondo, separa il paziente dalla sua storia, dalla sua cultura, dalle immagini che ne hanno modellato la percezione, e poi rovescia tutto e fa nascere il mondo dai seni della mamma e dalla camera da letto dei genitori. Hillman si è chiesto se la psicopatologia dei singoli non contenesse invece la sofferenza (pathos) dell’anima (psiche) che cerca di articolare un’espressione, un discorso (logos). Il singolo non è messo al mondo dalla famiglia, in realtà la sua nascita avviene nel mondo che dà forma e voce al carattere e alla vocazione di ciascuno, ed è nel mondo che ciascuno incontra il suo destino.
Quali sono le forme e le voci del mondo? Chi ascolto quando ascolto un sintomo, per esempio quando qualcuno è ossessionato da internet, dal telefonino, dal traffico, dagli appuntamenti di lavoro? Hillman è stato capace di divinare, nell’accelerazione del tempo e nella contrazione dello spazio, così tipici della nostra epoca, una epifania drogata di Ermes-Mercurio il dio degli scambi, dei confini, dei commerci. Certo è la storia che mi parla in un soggetto, e nella storia la sua biografia, e tuttavia c’è qualcosa che evoca, da dentro quella stessa esperienza, un modo di essere e di costruire la realtà che intesse i fili del tempo, che collega le civiltà, che è vasto e profondo quanto solo l’immagine può suggerire senza mai chiudersi in una definizione esaustiva. L’immagine porta nei pressi dell’anima del mondo, della matrice dei nostri vissuti, delle nostre fantasie, delle psicopatologie.
Si tratta allora di rimanere aderenti alle immagini, di farle dialogare tra loro senza costringerle nella camicia di forza riduttiva delle spiegazioni, di dischiuderne la forma che le apparenta: queste forme sono archetipali, in se stesse inattingibili, proprio perché origini comuni capaci di generare immagini sempre diverse, per tempi e per culture diverse.
L’anima del mondo è intessuta, secondo HIllman, da queste energie formatrici che si condensano, volta a volta, in immagini guida di altri immagini: gli dei.
Il politeismo di Hillman non ha però niente di teologico: nella mitologia greco-romana, lui, ebreo americano educato in Europa, trova un repertorio che, rivisto come sguardo psicologico, può curare un mondo afflitto da una postura monoteistica, e quindi intollerante, insofferente delle differenze, incapace di scorgere divinità e bellezza nelle infinite variazioni della natura e dell’arte, senza irrigidirle in qualche direttiva moraleggiante.
Tutto si potrà rimproverare a Hillman, tranne il fatto che abbia solo teorizzato la terapia della civiltà, senza provare di persona a imboccare questa diversa strada. Nel 1989, nel bel mezzo di una carriera professionale ricca di riconoscimenti, abbandona la pratica analitica privata e si dedica allo sviluppo della sua idea di psicologia archetipica, cerca di parlare il suo linguaggio fuori dallo studio, di fare della città il suo interlocutore. Hillman ha scritto di questa decisione come di una profonda «crisi morale». Andava tutto bene con i pazienti, ma sentiva che non stava facendo la cosa giusta, che ritagliare il proprio intervento sul soggetto umano significa rimanere in una prospettiva di tipo cartesiano: voler dedurre la realtà dall’io, per quanto corretto con l’aggiunta dell’inconscio.
IL SUO «POLITEISMO»
Avrebbe potuto però fermarsi a questa critica e continuare a praticare l’analisi junghiana, della quale era uno dei più importanti esponenti nel mondo. Neppure Jung, il suo maestro, gli è bastato: sì, Jung era andato in una direzione che potremmo chiamare terapia delle idee, e non più solo del singolo, ma rimaneva nel solco della tradizione cristiana e monoteista: la sua direzione guardava all’asse che congiunge l’io al Sé, dove il Sé è il nuovo centro unitario del rapporto fra coscienza e inconscio. Troppa unità, troppo «io» ancora. La varietà del mostrarsi dell’anima del mondo è irriducibile alle nostre pretese di afferrarla in una qualche rappresentazione unitaria, per quanto complessa essa voglia essere.
E poi via dall’antropocentrismo della nostra civiltà, dalla sua malattia che infetta le architetture delle nostre città insieme alla devastazione delle foreste e degli oceani: Hillman si è fatto paladino di una nuova psicologia ecologica.
Le rutilanti idee-provocazione di Hillman sono state coraggiose e affascinanti, hanno proposto la via di un pensiero psicologico capace di superare il romanzo familiare.
Rimane oggi da vedere se il suo radicale antiumanesimo, la sua celebrazione del differire infinito, non sia però, anch’esso, troppo figlio del nostro tempo, troppo post-moderno, troppo collusivo con le varie morti di Dio, dell’uomo, del soggetto, dell’io, della morale, dell’unità ... troppo neonietzscheano, insomma.
Forse il corpo del mondo, e quello degli individui, ha invece un disperato bisogno di unità, di progetto, di gerarchie di senso, di ordinato equilibrio.

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