«Giotto ad Assisi non dipinse. Ma lì non me lo fanno dire»
l’Unità 30.6.09
Intervista a Dario Fo: «Giotto ad Assisi non dipinse. Ma lì non me lo fanno dire»
Uno spettacolo del premio Nobel sul pittore e sugli affreschi della chiesa
«C’era Cavallini e la scuola romana, però il vescovo mi ha censurato»
di Stefano Miliani
Quel san Francesco che scaccia i diavoli da Arezzo chi l’ha dipinto? Giotto o il romano Cavallini? Nella basilica superiore di Assisi a fine ‘200 chi affrescò le scene del cosiddetto Maestro di Isacco e, sopra ogni altra cosa, quelle storie di San Francesco che per comune opinione hanno dato l’abbrivio alla «moderna» pittura italiana, più realistica e vicina agli uomini? Il pittore toscano o il maestro Pietro Cavallini e la scuola romana? Sull’amletico dilemma gli storici dell’arte si arrovellano dalla fine del ’700. In Italia prevale l’opzione giottesca con robuste eccezioni (del compianto Federico Zeri e di Bruno Zanardi). E ora il «partito» che propende per Cavallini e Roma acquisisce un alleato capace di meravigliose e umanissime affabulazioni sull’arte e sugli artisti: Dario Fo. Che racconta come e perché Giotto non ebbe alcun ruolo di guida, nella basilica assisiate, nella lezione-spettacolo con schermi, disegni e storie in calendario il 2 e 3 luglio al teatro Bonci di Cesena, l’8 e 9 in piazza Santa Croce a Firenze, il 24 e 25 in piazza San Francesco in Campo. Stranamente non davanti alla basilica di Assisi, il posto più congeniale. Non per volontà del premio Nobel: il vescovo – racconta Dario Fo – lì non gradiva e altre dislocazioni erano ingestibili. E se avete seguito, live o in tv, una delle sue storie dell’arte (dal duomo di Modena a Raffaello, da Michelangelo a Caravaggio), non vorrete perdere questa narrazione che si intreccia con l’originario messaggio francescano.
Semplificando, come funziona stavolta il marchingegno narrativo?
«Abbiamo preso alcune storie di San Francesco e abbiamo lavorato sulla tecnica pittorica d’esecuzione che era diversa tra scuola romana e toscana partendo da un fondamentale libro di Bruno Zanardi sulla questione di Assisi. Gli artisti usavano dei cosiddetti cartoni con tanti fori che, senza entrare ora in troppi dettagli, venivano appoggiati alla parete e attraverso una polvere nera servivano a tracciare delle sagome articolate come fossero marionette della tradizione orientale. Da quelle sagome si ottengono le figure e queste figure lì ad Assisi sono costanti, hanno le stesse dimensioni tanto nelle storie bibliche che in quelle su San Francesco. Abbiamo copiato le sagome come ha fatto Zanardi e scoperto, ad esempio, proporzioni tra testa e corpo diverse, il che vuol dire che gli autori erano diversi. Ricordiamo che quegli affreschi venivano eseguiti da veri “cantieri” con un maestro pittore, poi c’era chi eseguiva l’incarnato, chi il fondo, e così via. Di sicuro Cavallini aveva condotto un suo gruppo di lavoro, c’è chi dice ci fosse lo scultore Arnolfo di Cambio e chi il maestro di Giotto, cioè Cimabue, ma Giotto era troppo giovane: chi dirigeva, il “magister” generale, aveva una certa età».
Eppure molti studiosi restano convinti della sua presenza.
«Perché non hanno adoperato un metodo scientifico come ha fatto Zanardi. Ad esempio i pittori romani usavano un taglio radente per la luce, mentre in Giotto e nei toscani è molto più dolce, si passa dalla luce al buio con maggiore uniformità. E ad Assisi la presenza romana si vede. Abbiamo anche riprodotto molte opere perdute di affreschi romani del Cavallini di cui si sono salvate solo copie del ’600 e queste immagini danno molte indicazioni».
Per gli storici dell’arte che vedono Giotto maestro ad Assisi c’è, nonostante le differenze dovute agli anni passati, un’affinità di fondo tra gli affreschi di Assisi e quelli della Cappella degli Scrovegni a Padova, opera sicura dell’artista finita nel 1305.
«Sì, esiste una unità di fondo, ma perché era venuto ad Assisi, avrà visto, magari ha anche lavorato ma non come magister major».
Volevate allestire lo spettacolo davanti alla basilica di Assisi. Jacopo Fo ha detto che il vescovo della città, monsignor Sorrentino, si è opposto.
«Esatto, ci hanno risposto di no. Senza dare motivazioni. Volevano che lo facessimo sulla Rocca ma lassù non si arriva con i camion, è impossibile, eppure i frati e il sindaco lo volevano, erano d’accordo con noi. Eppure lì fanno spesso concerti. Peraltro ho già fatto in tutta l’Umbria, tranne che ad Assisi, lo spettacolo su San Francesco. Questa è censura bella e buona. Invece i gesuiti nella loro rivista dedicarono 15 pagine entusiaste al mio San Francesco».
Avere il nome di Giotto come artista principe attira più persone?
«È per quello che non vogliono il nostro spettacolo davanti alla basilica (ma non sto parlando dei frati). Poi io sono di sinistra e sul San Francesco ho idee diverse da quelle imposte nei secoli. Pian piano lo hanno trasformato in una copia di Cristo mentre lui non voleva saperne. Lo spirito di San Francesco è stato edulcorato. Come disse lui stesso: se andiamo avanti con queste varianti alle regole francescane alla fine proporremo un modo di vivere che piacerebbe tantissimo ai mercanti di Venezia».
Queste lezioni-spettacolo funzionano benissimo anche nelle riprese televisive. Giotto andrà in tv?
«Non so, facciamo lo spettacolo a nostre spese. Speriamo».
La storia e i libri della «querelle» dell’arte
La diatriba. A dire che Giotto lavorò ad Assisi, è un documento del 1312. Nel 1450 ci tornò su Lorenzo Ghiberti, poi il Vasari gli attribuì le storie francescane nel 1568 nella seconda edizione delle sue «Vite». Aprì il diverbio il domenicano Della Valle nel 1791. Bruno Zanardi, anche espertissimo restauratore, con «Giotto e Pietro Cavallini», nel 2002 ha cercato di provare scientificamente che lì non fu Giotto il maestro chiave. I i principali studiosi italiani del pittore, come Luciano Bellosi (autore di un libro essenziale come «La pecora di Giotto»), sono convinti che l’artista toscano dette l’impronta alla decorazione della basilica superiore. Che, costruita dal 1228 al 1253, dal 1277 ai primi del 300 fu «il» vero centro pittorico d’Europa. E per quegli affreschi, oltre a Cimabue, al Maestro di Isacco, Giotto e Cavallini, si sono fatti i nomi del romano Torriti e dello scultore Arnolfo di Cambio.
Intervista a Dario Fo: «Giotto ad Assisi non dipinse. Ma lì non me lo fanno dire»
Uno spettacolo del premio Nobel sul pittore e sugli affreschi della chiesa
«C’era Cavallini e la scuola romana, però il vescovo mi ha censurato»
di Stefano Miliani
Quel san Francesco che scaccia i diavoli da Arezzo chi l’ha dipinto? Giotto o il romano Cavallini? Nella basilica superiore di Assisi a fine ‘200 chi affrescò le scene del cosiddetto Maestro di Isacco e, sopra ogni altra cosa, quelle storie di San Francesco che per comune opinione hanno dato l’abbrivio alla «moderna» pittura italiana, più realistica e vicina agli uomini? Il pittore toscano o il maestro Pietro Cavallini e la scuola romana? Sull’amletico dilemma gli storici dell’arte si arrovellano dalla fine del ’700. In Italia prevale l’opzione giottesca con robuste eccezioni (del compianto Federico Zeri e di Bruno Zanardi). E ora il «partito» che propende per Cavallini e Roma acquisisce un alleato capace di meravigliose e umanissime affabulazioni sull’arte e sugli artisti: Dario Fo. Che racconta come e perché Giotto non ebbe alcun ruolo di guida, nella basilica assisiate, nella lezione-spettacolo con schermi, disegni e storie in calendario il 2 e 3 luglio al teatro Bonci di Cesena, l’8 e 9 in piazza Santa Croce a Firenze, il 24 e 25 in piazza San Francesco in Campo. Stranamente non davanti alla basilica di Assisi, il posto più congeniale. Non per volontà del premio Nobel: il vescovo – racconta Dario Fo – lì non gradiva e altre dislocazioni erano ingestibili. E se avete seguito, live o in tv, una delle sue storie dell’arte (dal duomo di Modena a Raffaello, da Michelangelo a Caravaggio), non vorrete perdere questa narrazione che si intreccia con l’originario messaggio francescano.
Semplificando, come funziona stavolta il marchingegno narrativo?
«Abbiamo preso alcune storie di San Francesco e abbiamo lavorato sulla tecnica pittorica d’esecuzione che era diversa tra scuola romana e toscana partendo da un fondamentale libro di Bruno Zanardi sulla questione di Assisi. Gli artisti usavano dei cosiddetti cartoni con tanti fori che, senza entrare ora in troppi dettagli, venivano appoggiati alla parete e attraverso una polvere nera servivano a tracciare delle sagome articolate come fossero marionette della tradizione orientale. Da quelle sagome si ottengono le figure e queste figure lì ad Assisi sono costanti, hanno le stesse dimensioni tanto nelle storie bibliche che in quelle su San Francesco. Abbiamo copiato le sagome come ha fatto Zanardi e scoperto, ad esempio, proporzioni tra testa e corpo diverse, il che vuol dire che gli autori erano diversi. Ricordiamo che quegli affreschi venivano eseguiti da veri “cantieri” con un maestro pittore, poi c’era chi eseguiva l’incarnato, chi il fondo, e così via. Di sicuro Cavallini aveva condotto un suo gruppo di lavoro, c’è chi dice ci fosse lo scultore Arnolfo di Cambio e chi il maestro di Giotto, cioè Cimabue, ma Giotto era troppo giovane: chi dirigeva, il “magister” generale, aveva una certa età».
Eppure molti studiosi restano convinti della sua presenza.
«Perché non hanno adoperato un metodo scientifico come ha fatto Zanardi. Ad esempio i pittori romani usavano un taglio radente per la luce, mentre in Giotto e nei toscani è molto più dolce, si passa dalla luce al buio con maggiore uniformità. E ad Assisi la presenza romana si vede. Abbiamo anche riprodotto molte opere perdute di affreschi romani del Cavallini di cui si sono salvate solo copie del ’600 e queste immagini danno molte indicazioni».
Per gli storici dell’arte che vedono Giotto maestro ad Assisi c’è, nonostante le differenze dovute agli anni passati, un’affinità di fondo tra gli affreschi di Assisi e quelli della Cappella degli Scrovegni a Padova, opera sicura dell’artista finita nel 1305.
«Sì, esiste una unità di fondo, ma perché era venuto ad Assisi, avrà visto, magari ha anche lavorato ma non come magister major».
Volevate allestire lo spettacolo davanti alla basilica di Assisi. Jacopo Fo ha detto che il vescovo della città, monsignor Sorrentino, si è opposto.
«Esatto, ci hanno risposto di no. Senza dare motivazioni. Volevano che lo facessimo sulla Rocca ma lassù non si arriva con i camion, è impossibile, eppure i frati e il sindaco lo volevano, erano d’accordo con noi. Eppure lì fanno spesso concerti. Peraltro ho già fatto in tutta l’Umbria, tranne che ad Assisi, lo spettacolo su San Francesco. Questa è censura bella e buona. Invece i gesuiti nella loro rivista dedicarono 15 pagine entusiaste al mio San Francesco».
Avere il nome di Giotto come artista principe attira più persone?
«È per quello che non vogliono il nostro spettacolo davanti alla basilica (ma non sto parlando dei frati). Poi io sono di sinistra e sul San Francesco ho idee diverse da quelle imposte nei secoli. Pian piano lo hanno trasformato in una copia di Cristo mentre lui non voleva saperne. Lo spirito di San Francesco è stato edulcorato. Come disse lui stesso: se andiamo avanti con queste varianti alle regole francescane alla fine proporremo un modo di vivere che piacerebbe tantissimo ai mercanti di Venezia».
Queste lezioni-spettacolo funzionano benissimo anche nelle riprese televisive. Giotto andrà in tv?
«Non so, facciamo lo spettacolo a nostre spese. Speriamo».
La storia e i libri della «querelle» dell’arte
La diatriba. A dire che Giotto lavorò ad Assisi, è un documento del 1312. Nel 1450 ci tornò su Lorenzo Ghiberti, poi il Vasari gli attribuì le storie francescane nel 1568 nella seconda edizione delle sue «Vite». Aprì il diverbio il domenicano Della Valle nel 1791. Bruno Zanardi, anche espertissimo restauratore, con «Giotto e Pietro Cavallini», nel 2002 ha cercato di provare scientificamente che lì non fu Giotto il maestro chiave. I i principali studiosi italiani del pittore, come Luciano Bellosi (autore di un libro essenziale come «La pecora di Giotto»), sono convinti che l’artista toscano dette l’impronta alla decorazione della basilica superiore. Che, costruita dal 1228 al 1253, dal 1277 ai primi del 300 fu «il» vero centro pittorico d’Europa. E per quegli affreschi, oltre a Cimabue, al Maestro di Isacco, Giotto e Cavallini, si sono fatti i nomi del romano Torriti e dello scultore Arnolfo di Cambio.
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