Twombly : l'americano ispirato dall'Italia

Twombly : l'americano ispirato dall'Italia
LUNEDÌ, 02 MARZO 2009 la repubblica

Alla Gnam di Roma la retrospettiva che celebra uno degli artisti della generazione di Robert Rauschenberg tra i più contesi dai collezionisti
Arrivato nella capitale, si radica subito, entrando nel fervido circuito delle gallerie
Oggi dice: "Non sono un puro, non sono del tutto un astrattista", ricordando Rothko

«Twombly non espone da tempo, e questo non fa che appesantire il suo fiasco. Su queste tele ci sono un paio di girandole di vernice rossa mista a un po´ di giallo e di bianco, piazzate in alto su una superficie in un tono di grigio medio. Ci sono alcune sgocciolature e macchie e un´occasionale linea di matita. Non c´è niente da vedere in questi dipinti». Così una recensione apparsa sulla rivista Arts Magazine dava conto, nel maggio del 1964, della personale allestita da Cy Twombly a New York, ove l´artista tornava dopo quattro anni di silenzio, esponendo il ciclo di dipinti intitolato Nine Discours on Commodus. Abbastanza stupefacenti, queste righe, soprattutto se si tiene conto che a firmarle non fu un più o meno scancellato redattore, ma Donald Judd, scultore - esattamente coetaneo di Twombly - che a breve sarebbe divenuto un esponente di spicco della corrente minimalista. Il che comporta una spiegazione.
Cy Twombly è nato in Virginia nel 1928; trasferitosi alla fine degli anni Quaranta prima a Boston e poi a New York, ha da allora perseguito un laboratorio pittorico di perfetta ossequenza ai dettami delle nuove generazioni: borsa di studio all´Art Students League, corsi al Black Mountain College con Ben Shahn, prime mostre patrocinate da Robert Motherwell - fra l´altro. Poi, con Robert Rauschenberg, un viaggio di studio in Europa e in nord Africa, fra ´52 e ´53; il ritorno in America, e la personale, sempre assieme a Rauschenberg, alla Stable Gallery, da poco inaugurata da Eleanor Ward. Tutto rientra per ora nella regola. Ma poi il viaggio giovanile resta e ingigantisce nei suoi pensieri; chiede (e non ottiene) una nuova borsa di studio per tornare in Europa; poi ha un´occasione per partire per Roma, e subito la coglie. È il 1957. A Roma, e nel suo piccolo circuito di gallerie, di artisti e di mecenati d´arte contemporanea (con il mercato che gli appare di fatto «inesistente», ma con una situazione culturale in fermento), cresce nondimeno quello che Roland Barthes chiamerà per lui «l´effetto Mediterraneo». I luoghi, le memorie ovunque disseminate dell´antico, la sua gente, le amicizie che stringe (Gabriella Drudi e Toti Scialoja, Salvatore Scarpitta e Conrad Marca-Relli, i Franchetti e Plinio De Martiis) lo seducono al punto che in Italia si radica; torna sì in patria, più o meno regolarmente (negli anni Novanta comprerà persino una casa nella natia Lexington), ma il suo luogo rimarrà qui - lo è tuttora, in questa sua età avanzata (della quale dice oggi a Nicholas Serota: «la vecchiaia è bella, nel senso che richiede molto meno»).
È questo, per primo questo, i colleghi americani e il collezionismo d´oltreoceano non capiscono e non perdoneranno, a lungo: come si potesse, in quel dopoguerra che aveva stabilito anche per la pittura la primazia indiscussa di New York sulla vecchia Europa, lavorare qui, lasciandosi avvolgere dalla storia e dal mito, da Catullo e da Poussin, da Mallarmé o da Raffaello o da Ingres, dall´Egitto e dalla Grecia, dal mare, dal sogno di vecchie navi, da una cittadella asserragliata e bianca. Il 1964, poi - e torniamo così al tempo di quella malevola recensione di Judd - sarebbe stato l´anno della Pop, e del suo trionfale imporsi nel vecchio continente; l´anno del gran premio alla Biennale di Venezia dato al suo amico Bob Rauschenberg, che esponeva nel padiglione americano nella storica mostra che, presentata in catalogo dal direttore del Jewish Museum di New York Alan Solomon, sanciva in varie forme la reazione compatta di tutta la giovane arte statunitense all´espressionismo astratto. Twombly appare dunque allora, negli Stati Uniti, come un rimestatore un poco démodé di un linguaggio ormai datato.
Tanto tempo è da allora trascorso che si fa fatica a immaginare adesso quella sorta di indice in cui fu posto. Ora che Twombly è uno dei più celebrati artisti mondiali, che sue retrospettive sono state organizzate dai principali musei, e la cui opera - per lungo tempo ristretta nei numeri - è ansiosamente ricercata dalle maggiori collezioni, pubbliche e private. Ora una sua vasta e ben scelta mostra, curata da Serota, che ha preso avvio dalla Tate Modern di Londra ed è transitata al Guggenheim Museum di Bilbao, giunge a Roma, attesissima, alla Galleria Nazionale d´Arte Moderna, dal 4 marzo al 24 maggio. Settanta opere - dipinti, sculture, disegni -, talune di grandissima dimensione, ripercorrono in sintesi il lungo tragitto dell´artista: da alcuni dei lavori aurorali, dipinti al rientro a New York dal primo soggiorno in Italia del ´52, come Quarzazat e Tiznit, eseguiti sulla base di disegni e suggestioni ricevute al museo etnografico Pigorini di Roma, ed esposti nella prima mostra alla Stable Gallery, fino alle cose più recenti, come la serie intitolata Bacchus, del 2005. Affiancati, questi dipinti, dalle sculture, egualmente celebrate ma ancora oggi meno note al pubblico, che le ha potute più raramente incontrare in una ampia scelta antologica (una loro prima organica presentazione fu quella del 2000 al Kunstmuseum di Basilea).
«Non sono un puro. Non sono del tutto un astrattista»: così dice oggi Twombly, facendo singolarmente eco ad un pensiero espresso da Rothko, e pensando forse soprattutto alle sue sculture, dove l´oggetto, un oggetto misterioso, imperfettamente simbolico, resiste, e asserisce la sua "figura". Che è di volta in volta quella di un fiore, di una barca, di un altarolo, di un paesaggio. Mentre memorie forse di Schwitters, forse di Giacometti, si riconoscono e poi annegano nel bianco da cui le sculture sono ricoperte: un bianco che è purezza, assenza, sospensione, lontananza, luce. Un bianco simile a quello che invadeva di sé le prime opere "italiane" di Twombly, accompagnato da un lieve scorrere della matita su una coltre di materia leggera, innocente («puro gesto sul puro muro bianco», guidato solo dall´«inarrestabile impulso di tracciare un segno»), esposte già nella sua personale del ´58 alla galleria di De Martiis, la Tartaruga; mostra introdotta da un testo di Palma Bucarelli, soprintendente allora della Galleria Nazionale di Roma, che la soprintendente attuale della Galleria, Mara Vittoria Clarelli, ricorda oggi nel catalogo Electa che accompagna la mostra odierna.
In una breve e densa pagina che menziona fra l´altro le Lezioni americane di Italo Calvino: la «leggerezza pensosa» opposta a quella «frivola», e la malinconia, che è appunto «la tristezza divenuta leggera». Tutte chiavi interpretative, o forse solo suggestioni, capaci di andare al cuore della pittura d´allora di Twombly.

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