Chi tocca il Pincio dovrà vedersela con Napoleone, Gide e D'Annunzio
ROMA - Chi tocca il Pincio dovrà vedersela con Napoleone, Gide e D'Annunzio
Il Foglio, 2 settembre 2008
Roma. Per capire quanto sia pazza l'idea dei settecento posti macchina a pagamento su sette piani interrati sotto la terrazza del Pincio, basterebbe rileggersi le cronache della primavera del 2004, quando il progetto fu presentato dalla giunta Veitroni. Si promettevano cantieri "il meno invasivi possibile" e si diceva che i lavori sarebbero partiti a quindici metri dalla balconata, vale a dire a quindici metri (cioè nulla) da quel luogo di cui Andre Gide scriveva che "sembra un palco eretto dalla ciano dell'uomo riconoscente, per ammirare Io spettacolo più grandioso che un Dio d'amore possa offrire alle sue creature". Si minimizzava preventivamente quello che gli sbancamenti avrebbero potuto portare alla luce e si narrava dei quindici sondaggi che non avevano rilevato nulla di interessante. Anzi, nulla del tutto. Il che, a Roma (per di più su quello che nell'antichità si chiamava Collis Hortulorum, perché lì le famiglie patrizie romane avevano i loro più bei giardini, fin dall'età repubblicana) fa amaramente sghignazzare. Perché succede che Roma, come sempre, di questo genere di dispetti poi si vendica, come può. Ad appalto assegnato, è bastato cominciare a scavare e l'antico si è affacciato, con strutture tutt’altro che trascurabili: opere murarie di ampiezza ancora ignota e un criptoportico del Primo secolo avanti Cristo. Ora la storia è chiara. E' una pazza
e pessima idea, fatta di nessun amore per Soma e tantomeno per il Pincio, buona per gli interessi di pochi (in questo caso non c'è nemmeno una metropolitana indispensabile da improvvisare). Il sindaco Alemanno, che nulla deciderà prima del 9 settembre, quando tornerà dal suo viaggio in Israele, quell'idea l'ha sempre osteggiata. E dovrà trovare il modo di uscirne in forma economicamente accettabile, visto che si profila una penale di quaranta milioni di euro in caso di mancata realizzazione dell'opera. Uscirne, e presto, è quello che gli chiedono, tra gli altri, il Comitato Viva Valadier, Italia Nostra e gli studiosi del Gruppo dei Romanisti, che hanno convocato per stamattina alle undici una conferenza stampa con visita guidata al cantiere, per mostrare l'offesa in atto. Che si tratti di offesa è chiaro, e non solo per gli oltranzisti del "nulla si tocchi, mai e in nessun caso". Il Pincio è, di suo, storia antichissima e storia recente stratificate come solo Roma sa fare. Così com'è oggi, con quella terrazza che dovrebbe diventare l'involucro del parcheggio con accesso delle auto direttamente dagli emicicli del Valadier, lo vollero i francesi. Fu Napoleone a scegliere il colle del Pincio per fame un grandioso giardino pubblico nel quale celebrare se stesso nella seconda capitale dell'impero. Roma, che non ama essere seconda a nessuno, assorbì il progetto napoleonico, che fu fatto proprio dal lungimirante Pio VII e dall'architetto Valadier, un signore che girava ancora in parrucca incipriata ma apprezzava l'innovazione, se era il caso.
Lo scrittore Marco Fabio Apolloni, che per vocazione familiare e personale di antiquario conosce bene la storia del Pincio, frutto miracoloso di un'insospettabile alleanza di intenti napoleonici e di umori di restaurazione, dice al Foglio che "Valadier non ha potuto far altro che seguire la falsariga del progetto napoleonico", del quale Apolloni conserva addirittura il disegno originale, per quanto riguarda la fontana, con tanto di approvazione del ministro dei Lavori pubblici francese dell'epoca. Si trattava di un moderno progetto di verde pubblico, elaborato da diversi architetti, il più importante dei quali era Berthault, "anche se -prosegue Apolloni - l'unico vero, grande architetto francese è il potere esecutivo. Del resto, i francesi hanno portato in tutte le città italiane la loro idea di giardini di pubblico godimento". Se la sconfitta di Napoleone non bloccò i lavori del Pincio, cominciati da un paio d'anni, "e se la Restaurazione ebbe a Roma una sorta di intervallo, lo si deve a quello straordinario e mondanissimo cardinale, mai stato prete, che si chiamava Èrcole Consalvi, e che fu il segretario di stato di PioVII".
Molta acqua tiberina, da allora, è passata sotto i ponti, e il Pincio è diventato io sfondo più amato e più classico delle più classiche passeggiate romane. Molto tempo è passato anche da quando D'Annunzio immaginava Andrea Sperelli, il protagonista del "Piacere", mentre contempla il Pincio che "verdeggiava come un'isola in un lago nebbioso". Ora, di nebbioso c'è soprattutto il futuro della terrazza dalla quale si ammira e si respira Roma. Sulla quale, se il parcheggio fosse realizzato, si aprirebbero, dicono ancora le cronache del 2004, "uscite pedonali, bocchettoni, prese d'aria ecc". Tutto questo, a poche centinaia di metri da un immenso parcheggio già esistente - al galoppatoio di Villa Borghese - e sempre vuoto a metà.
Il Foglio, 2 settembre 2008
Roma. Per capire quanto sia pazza l'idea dei settecento posti macchina a pagamento su sette piani interrati sotto la terrazza del Pincio, basterebbe rileggersi le cronache della primavera del 2004, quando il progetto fu presentato dalla giunta Veitroni. Si promettevano cantieri "il meno invasivi possibile" e si diceva che i lavori sarebbero partiti a quindici metri dalla balconata, vale a dire a quindici metri (cioè nulla) da quel luogo di cui Andre Gide scriveva che "sembra un palco eretto dalla ciano dell'uomo riconoscente, per ammirare Io spettacolo più grandioso che un Dio d'amore possa offrire alle sue creature". Si minimizzava preventivamente quello che gli sbancamenti avrebbero potuto portare alla luce e si narrava dei quindici sondaggi che non avevano rilevato nulla di interessante. Anzi, nulla del tutto. Il che, a Roma (per di più su quello che nell'antichità si chiamava Collis Hortulorum, perché lì le famiglie patrizie romane avevano i loro più bei giardini, fin dall'età repubblicana) fa amaramente sghignazzare. Perché succede che Roma, come sempre, di questo genere di dispetti poi si vendica, come può. Ad appalto assegnato, è bastato cominciare a scavare e l'antico si è affacciato, con strutture tutt’altro che trascurabili: opere murarie di ampiezza ancora ignota e un criptoportico del Primo secolo avanti Cristo. Ora la storia è chiara. E' una pazza
e pessima idea, fatta di nessun amore per Soma e tantomeno per il Pincio, buona per gli interessi di pochi (in questo caso non c'è nemmeno una metropolitana indispensabile da improvvisare). Il sindaco Alemanno, che nulla deciderà prima del 9 settembre, quando tornerà dal suo viaggio in Israele, quell'idea l'ha sempre osteggiata. E dovrà trovare il modo di uscirne in forma economicamente accettabile, visto che si profila una penale di quaranta milioni di euro in caso di mancata realizzazione dell'opera. Uscirne, e presto, è quello che gli chiedono, tra gli altri, il Comitato Viva Valadier, Italia Nostra e gli studiosi del Gruppo dei Romanisti, che hanno convocato per stamattina alle undici una conferenza stampa con visita guidata al cantiere, per mostrare l'offesa in atto. Che si tratti di offesa è chiaro, e non solo per gli oltranzisti del "nulla si tocchi, mai e in nessun caso". Il Pincio è, di suo, storia antichissima e storia recente stratificate come solo Roma sa fare. Così com'è oggi, con quella terrazza che dovrebbe diventare l'involucro del parcheggio con accesso delle auto direttamente dagli emicicli del Valadier, lo vollero i francesi. Fu Napoleone a scegliere il colle del Pincio per fame un grandioso giardino pubblico nel quale celebrare se stesso nella seconda capitale dell'impero. Roma, che non ama essere seconda a nessuno, assorbì il progetto napoleonico, che fu fatto proprio dal lungimirante Pio VII e dall'architetto Valadier, un signore che girava ancora in parrucca incipriata ma apprezzava l'innovazione, se era il caso.
Lo scrittore Marco Fabio Apolloni, che per vocazione familiare e personale di antiquario conosce bene la storia del Pincio, frutto miracoloso di un'insospettabile alleanza di intenti napoleonici e di umori di restaurazione, dice al Foglio che "Valadier non ha potuto far altro che seguire la falsariga del progetto napoleonico", del quale Apolloni conserva addirittura il disegno originale, per quanto riguarda la fontana, con tanto di approvazione del ministro dei Lavori pubblici francese dell'epoca. Si trattava di un moderno progetto di verde pubblico, elaborato da diversi architetti, il più importante dei quali era Berthault, "anche se -prosegue Apolloni - l'unico vero, grande architetto francese è il potere esecutivo. Del resto, i francesi hanno portato in tutte le città italiane la loro idea di giardini di pubblico godimento". Se la sconfitta di Napoleone non bloccò i lavori del Pincio, cominciati da un paio d'anni, "e se la Restaurazione ebbe a Roma una sorta di intervallo, lo si deve a quello straordinario e mondanissimo cardinale, mai stato prete, che si chiamava Èrcole Consalvi, e che fu il segretario di stato di PioVII".
Molta acqua tiberina, da allora, è passata sotto i ponti, e il Pincio è diventato io sfondo più amato e più classico delle più classiche passeggiate romane. Molto tempo è passato anche da quando D'Annunzio immaginava Andrea Sperelli, il protagonista del "Piacere", mentre contempla il Pincio che "verdeggiava come un'isola in un lago nebbioso". Ora, di nebbioso c'è soprattutto il futuro della terrazza dalla quale si ammira e si respira Roma. Sulla quale, se il parcheggio fosse realizzato, si aprirebbero, dicono ancora le cronache del 2004, "uscite pedonali, bocchettoni, prese d'aria ecc". Tutto questo, a poche centinaia di metri da un immenso parcheggio già esistente - al galoppatoio di Villa Borghese - e sempre vuoto a metà.
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