EMOZIONI & LUOGHI ANTICHI Ai margini del dibattito di questi giorni sul destino dei beni archeologici
EMOZIONI & LUOGHI ANTICHI Ai margini del dibattito di questi giorni sul destino dei beni archeologici
VINCENZO CERAMI
16 luglio 2007, LA REPUBBLICA
C´è un rapporto profondo con i segni lasciati dagli avi un senso di appartenenza che sarebbe vanificato dalla gestione di società private
Giorni fa il Giappone si è scusato con la città di Firenze perché un suo cittadino ha lasciato una scritta sulle mura della Basilica di Santa Maria del Fiore: nome, cognome e data. Quindi è stato subito identificato. Eppure le scale che si arrampicano verso la cupola del Duomo sono tempestate da un rosario di firme e di numeri, quasi una lista anagrafica. Da noi è una consuetudine, nessuno si scandalizza del radicato e irrispettoso vezzo di imbrattare i luoghi storici. Il reo giapponese si sarà sentito autorizzato a compiere il gesto irriverente, visto che è abitudine di molti visitatori italiani. Tokyo ha condannato l´atto, considerandolo vandalico. Ma non si tratta di puro, gratuito vandalismo: l´impulso a incidere sulle antiche mura la propria firma scaturisce da un meccanismo profondo e naturale.
Questo piccolo fatto di cronaca mi suggerisce una divagazione ai margini del dibattito di questi giorni sul destino dei nostri beni archeologici. Uscendo per un momento dagli argomenti con i quali si affronta di solito la questione, cioè l´opportunità o meno di cedere la loro gestione ai privati, vorrei porre l´attenzione su un dettaglio del problema apparentemente irrisorio, secondario, ma che a mio avviso è invece di sostanziale importanza. Mi riferisco al rapporto, tanto solido quanto sfuggente, che noi abbiamo con gli oggetti testamentari, con i segni tangibili lasciati intorno a noi dai nostri avi.
Parto proprio dall´incontrollabile moto istintivo che hanno molti visitatori quando sono in vicinanza di un sito antico. Dopo l´escursione, prima di andarsene, essi sentono il bisogno di scrivere da qualche parte il proprio nome e la data di quel giorno. Anche intorno ai templi siciliani, ad esempio, si notano questi graffiti, perfino sulle foglie grasse dei cactus. In altri luoghi nomi e date sono riportati sulla corteccia degli alberi o sui ruderi.
In verità, se ci avviciniamo a questa sorta di autografi datati, ci accorgiamo che sono soprattutto di persone italiane. La spiegazione è semplice: c´è un rapporto di appartenenza tra testimonianza del passato e i viventi. In quel che resta delle antiche opere, i contemporanei italiani trovano il sigillo dell´eternità, del tempo che tutto cancella lasciando in piedi soltanto qualche traccia della realtà passata. Come reazione impulsiva al sentimento di assenza, di evanescenza del tempo, si fa forte il desiderio di lasciar traccia, non lontano dalle rovine, della propria esistenza, del passaggio su questo mondo. E´ un modo di omologarsi alla testimonianza del monumento: «anch´io farò parte del passato!». A differenziare le emozioni del visitatore italiano da quelle dello straniero, è il territorio. I nostri antichi padri hanno costruito glorie e generato figli: noi siamo nati dal loro seme, il nostro incanto davanti alle millenarie bellezze italiane è struggente, perché provocato da un´alchimia antropologica che mette insieme il senso della morte e dell´eternità. Lo spirito con cui un australiano o un americano osserva il Foro romano è ben altro, ovviamente. Egli non può giovarsi del nostro stesso orgoglio.
L´italiano che varca l´ingresso di un sito archeologico ben tenuto (non certo Pompei), nota che esso è presidiato e curato da custodi in divisa, sparsi qua e là con il compito di far rispettare il luogo carismatico. Sono come sacerdoti del tempio. Gli diamo uno stipendio affinché ci garantiscano l´integrità e l´immortalità del monumento. Ne cogliamo il ruolo sacro quasi senza accorgercene.
Sono lì, muti e guardinghi. E´ proprio la loro presenza istituzionale a ricordarci che quel sito è pubblico, appartiene a qualsiasi italiano lo visiti. Essi sono lì perché ce li abbiamo messi noi, in nostra rappresentanza, e hanno una grande responsabilità nella preservazione del nostro passato e della nostra memoria.
A questo punto mi chiedo se la sostituzione dello Stato con una società privata nella funzione sacerdotale di ministro del bene comune, non vanifichi il nostro senso di appartenenza. Non siamo più noi direttamente ad aver cura della nostra eternità, ma una ignota società privata che percepiamo come dissociata rispetto al complesso meccanismo mimetico che si mette in moto quando ci muoviamo tra i resti dell´antichità. Temo che ci sentiremmo in qualche modo orfani, ospiti e non più possessori del nostro passato. I guardiani non sono al nostro servizio, ma al servizio di altri proprietari del monumento. E questo finisce per privarci di un bene spirituale, essenziale al nostro rapporto con il sentimento del tempo presente. Paradossalmente, quelle tracce sui muri della Basilica fiorentina sono segni di una relazione viva, iconica, con le testimonianze del passato, anche se indubbiamente d´inciviltà. Questa vitalità del reperto archeologico, o artistico, pur scoraggiando lo sfregio delle firme sui muri, va difesa e conservata, affinché tanta bellezza non diventi un sasso morto.
Un proverbio sanscrito ci ricorda che gli umani dicono che il tempo passa, e il tempo dice che gli umani passano. E´ una massima che non avrebbe senso se non vivessimo più come nostro lo spiazzo dove si ergeva la basilica giudiziaria del Foro Traiano.
VINCENZO CERAMI
16 luglio 2007, LA REPUBBLICA
C´è un rapporto profondo con i segni lasciati dagli avi un senso di appartenenza che sarebbe vanificato dalla gestione di società private
Giorni fa il Giappone si è scusato con la città di Firenze perché un suo cittadino ha lasciato una scritta sulle mura della Basilica di Santa Maria del Fiore: nome, cognome e data. Quindi è stato subito identificato. Eppure le scale che si arrampicano verso la cupola del Duomo sono tempestate da un rosario di firme e di numeri, quasi una lista anagrafica. Da noi è una consuetudine, nessuno si scandalizza del radicato e irrispettoso vezzo di imbrattare i luoghi storici. Il reo giapponese si sarà sentito autorizzato a compiere il gesto irriverente, visto che è abitudine di molti visitatori italiani. Tokyo ha condannato l´atto, considerandolo vandalico. Ma non si tratta di puro, gratuito vandalismo: l´impulso a incidere sulle antiche mura la propria firma scaturisce da un meccanismo profondo e naturale.
Questo piccolo fatto di cronaca mi suggerisce una divagazione ai margini del dibattito di questi giorni sul destino dei nostri beni archeologici. Uscendo per un momento dagli argomenti con i quali si affronta di solito la questione, cioè l´opportunità o meno di cedere la loro gestione ai privati, vorrei porre l´attenzione su un dettaglio del problema apparentemente irrisorio, secondario, ma che a mio avviso è invece di sostanziale importanza. Mi riferisco al rapporto, tanto solido quanto sfuggente, che noi abbiamo con gli oggetti testamentari, con i segni tangibili lasciati intorno a noi dai nostri avi.
Parto proprio dall´incontrollabile moto istintivo che hanno molti visitatori quando sono in vicinanza di un sito antico. Dopo l´escursione, prima di andarsene, essi sentono il bisogno di scrivere da qualche parte il proprio nome e la data di quel giorno. Anche intorno ai templi siciliani, ad esempio, si notano questi graffiti, perfino sulle foglie grasse dei cactus. In altri luoghi nomi e date sono riportati sulla corteccia degli alberi o sui ruderi.
In verità, se ci avviciniamo a questa sorta di autografi datati, ci accorgiamo che sono soprattutto di persone italiane. La spiegazione è semplice: c´è un rapporto di appartenenza tra testimonianza del passato e i viventi. In quel che resta delle antiche opere, i contemporanei italiani trovano il sigillo dell´eternità, del tempo che tutto cancella lasciando in piedi soltanto qualche traccia della realtà passata. Come reazione impulsiva al sentimento di assenza, di evanescenza del tempo, si fa forte il desiderio di lasciar traccia, non lontano dalle rovine, della propria esistenza, del passaggio su questo mondo. E´ un modo di omologarsi alla testimonianza del monumento: «anch´io farò parte del passato!». A differenziare le emozioni del visitatore italiano da quelle dello straniero, è il territorio. I nostri antichi padri hanno costruito glorie e generato figli: noi siamo nati dal loro seme, il nostro incanto davanti alle millenarie bellezze italiane è struggente, perché provocato da un´alchimia antropologica che mette insieme il senso della morte e dell´eternità. Lo spirito con cui un australiano o un americano osserva il Foro romano è ben altro, ovviamente. Egli non può giovarsi del nostro stesso orgoglio.
L´italiano che varca l´ingresso di un sito archeologico ben tenuto (non certo Pompei), nota che esso è presidiato e curato da custodi in divisa, sparsi qua e là con il compito di far rispettare il luogo carismatico. Sono come sacerdoti del tempio. Gli diamo uno stipendio affinché ci garantiscano l´integrità e l´immortalità del monumento. Ne cogliamo il ruolo sacro quasi senza accorgercene.
Sono lì, muti e guardinghi. E´ proprio la loro presenza istituzionale a ricordarci che quel sito è pubblico, appartiene a qualsiasi italiano lo visiti. Essi sono lì perché ce li abbiamo messi noi, in nostra rappresentanza, e hanno una grande responsabilità nella preservazione del nostro passato e della nostra memoria.
A questo punto mi chiedo se la sostituzione dello Stato con una società privata nella funzione sacerdotale di ministro del bene comune, non vanifichi il nostro senso di appartenenza. Non siamo più noi direttamente ad aver cura della nostra eternità, ma una ignota società privata che percepiamo come dissociata rispetto al complesso meccanismo mimetico che si mette in moto quando ci muoviamo tra i resti dell´antichità. Temo che ci sentiremmo in qualche modo orfani, ospiti e non più possessori del nostro passato. I guardiani non sono al nostro servizio, ma al servizio di altri proprietari del monumento. E questo finisce per privarci di un bene spirituale, essenziale al nostro rapporto con il sentimento del tempo presente. Paradossalmente, quelle tracce sui muri della Basilica fiorentina sono segni di una relazione viva, iconica, con le testimonianze del passato, anche se indubbiamente d´inciviltà. Questa vitalità del reperto archeologico, o artistico, pur scoraggiando lo sfregio delle firme sui muri, va difesa e conservata, affinché tanta bellezza non diventi un sasso morto.
Un proverbio sanscrito ci ricorda che gli umani dicono che il tempo passa, e il tempo dice che gli umani passano. E´ una massima che non avrebbe senso se non vivessimo più come nostro lo spiazzo dove si ergeva la basilica giudiziaria del Foro Traiano.
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