Giottino e i «giotteschi» dopo Giotto

l’Unità 22.6.08
Giottino e i «giotteschi» dopo Giotto
di Renato Barilli

UFFIZI La grande rassegna dedicata al periodo successivo alla scoparsa del leggendario maestro. Una fase molto dibattuta dalla storia dell’arte: tempo di decadenza o da rivalutare? Ecco le figure chiave

Una mostra, agli Uffizi di Firenze, riapre un capitolo storiografico su cui già si versato molto inchiostro, essendo dedicato a un tema di grande peso, L’eredità di Giotto, ovvero L’arte a Firenze 1340-1375. Che cosa avveniva, nella città del giglio, l’indomani della scomparsa del Maestro? In proposito, si danno due linee interpretative, sostenute con forza, rispettivamente, da due allievi di Roberto Longhi, Giovanni Previtali e Carlo Volpe. Il primo si è attenuto nei suoi studi alla linea manualistica vincente, che cioé, in quella seconda metà del Trecento, pur essendoci in Toscana, o provenienti da altre sponde, personalità vivaci e meritevoli, nessuna di loro poté raggiungere l’alta statura giottesca, e fu dunque una fase di ristagno, un tirare i remi in barca, in attesa degli inizi del secolo seguente, con l’avvento delle figure straordinarie di Masaccio, Beato Angelico e compagni, che in sintonia con la lezione dell’Alberti posero le basi di una prospettiva rigorosa, scientifica, ridando l’assalto a una spazialità ampia, distesa, e quindi riprendendo in pieno la lezione giottesca, che i seguaci immediati avevano bloccato. Ad avviso di Volpe ed altri, invece, in quella metà di secolo Firenze vide fiorire talenti notevoli, niente affatto indegni del padre spirituale, e in genere bisogna guardarsi dagli schemi manualistici. Per la stessa ragione, si è andati all’attacco dello schema manualistico successivo, secondo cui da un lato la città del Battistero vide l’azione dei grandi talenti prospettici, l’Alberti e compagni, mentre da un altro arrivavano i campioni del gotico internazionale sul tipo di Gentile da Fabriano. Inutile stare a distinguere tra loro, meglio unirli tutti nel culto un po’ generico di un Rinascimento inteso come categoria vincente, buona ad ogni uso. Per quanto mi riguarda, mi sento piuttosto difensore dei vecchi schemi, ossidati fin che si vuole, ma pur sempre funzionanti, mentre vedo con parecchio sospetto questa tendenza dei filologi che nel culto più ossequioso di ogni artista che allora valesse, piallano i contrasti, livellano, fanno avanzare una macchina schiacciasassi.
Andiamoli a vedere da vicino, questi eredi di Giotto, riuniti, nella vita, nell’arte, e di conseguenza in mostra, per famiglie di addetti al nobile mestiere, pur con inevitabili scarti cronologici. Bernardo e Taddeo Daddi, Maso di Banco, l’Orcagna, Taddeo e Agnolo Gaddi, e tanti altri comprimari, tra cui spicca un nipote del grande Giotto, Stefano, detto appunto Giottino. Dappertutto notiamo una perdita di spazialità, le figure si irrigidiscono, si restringono nelle loro pelli, anche se questo vale a dar loro un’estrema eleganza di profili. Il gotico internazionale con le sue squisitezze è già alle porte, o addirittura l’intero capitolo del postgiottismo vi si deve iscrivere di diritto. Che cosa è avvenuto, a Firenze, che sia valso a fermare le strade dell’espansione, della conquista dello spazio, in omologia con la conquista dei mercati? Certo ha avuto il suo peso l’orrenda peste nera del 1348, a spopolare le file della cittadinanza e a disastrare l’economia, certo è che si ebbe allora un ristagno generale, riscontrabile pure nella vicina e fieramente antagonista Siena, e più oltre in Emilia e Romagna, nel Veneto, in Lombardia. Il secolo si ferma, boccheggia, prende fiato, per ripartire poi nei primi decenni del Quattrocento.
Se si vuole avere una riprova di tutto ciò, si vada ad ammirare la bella mostra, strettamente collegata alla precedente, che il polo museale fiorentino ha allestito in un’altra sede di eccellenza, la Galleria dell’Accademia, dedicandola per intero a Giovanni da Milano. Unite, le due mostre, anche nel presentare un comune ostacolo, essendo poste nel cuore di due musei tra i più frequentati al mondo, senza ingressi distinti, per cui un comune visitatore interessato ad esse, ma non necessariamente a ripassare i capolavori custoditi in quei luoghi sacri, deve sottostare a una lunga fila.
In realtà pare che Giovanni non fosse nato a Milano, ma in provincia di Como, a Caversaccio, verso la metà del Trecento, e certo fece a tempo a nutrirsi di lieviti gotici lombardi, innestandoli sul tronco giottesco, dopo la trasferta a Firenze, e quindi partecipando al comune destino di tutti i giotteschi, di dare, del maestro, una versione arcaizzante, quasi per uno spirito bizantino di ritorno, con perdita dell’individuazione dei volti, dei corpi, dei gesti. Nelle tavole di Giovanni, qui raccolte quasi al completo, e nel ciclo di affreschi nella Cappella Guidalotti Rinuccini in S. Croce, ottimamente evocata in mostra con l’aiuto di proiezioni, compare il gusto per un’iterazione delle figure, tutte clonate, ripetute, moltiplicate, con posture identiche, con testine possedute dalla medesima inclinazione.
E con un magnifico vezzo dominante, gli occhi a feritoia, stilema che certo deriva da Giotto, ma là è il segno che lo sviluppo maestoso della calotta cranica schiaccia i dati fisionomici, qui è un dardeggiare di lamine acuminate, un lampeggiare di sguardi come stilettate incisive. Viene pure rapidamente evocata con qualche opera un’anima gemella, che negli stessi riti della ripetizione esasperata e conforme ebbe Giovanni, nella persona di Giusto dei Menabuoi.

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