Esotica quanto erotica, l' Abissinia degli italiani

Corriere della Sera, 18/07/2007

Giovanni Belardelli

Esotica quanto erotica, l' Abissinia degli italiani
COLONIALISMO Un volume analizza i diari dei nostri connazionali in Africa orientale Il fascino delle indigene era più forte dello spirito imperiale

Che nel 1935-36 la guerra d' Etiopia rappresentasse il momento di massimo consenso degli italiani al regime fascista, quello nel quale la retorica mussoliniana seppe anche intercettare sentimenti profondi della popolazione, è un fatto da tempo riconosciuto. Ma il libro di una giovane studiosa, Giulietta Stefani (Colonia per maschi. Italiani in Africa orientale: una storia di genere, Ombre corte, pp. 202, 18), esamina ora la questione da un altro punto di vista: studia cioè, soprattutto attraverso i diari e le memorie conservati nell' Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, l' insieme di sogni, paure, aspirazioni e delusioni che furono proprie degli italiani che allora si recarono in Africa, come civili o come militari. Quell' impresa coloniale, secondo il Duce, rappresentava una prova per collaudare «la virilità del popolo italiano»: coinvolgendo quasi 500 mila giovani (un quinto di quanti allora avevano dai 20 ai 25 anni), doveva contribuire appunto a forgiare l' «uomo nuovo» fascista, impegnato nella conquista militare, ma anche nella colonizzazione dell' Etiopia. In realtà, a giudicare dalle testimonianze utilizzate nel libro, le cose andarono in modo diverso. Almeno nel caso dei civili, di quanti cioè si erano recati nella nuova colonia per lavoro, si trattò di un soggiorno pieno di disagi, durante il quale le speranze di ricchezza che avevano indotto alla partenza furono presto sostituite dalla disillusione. «A volte c' erano vermi nella minestra», scrive un ex operaio che aveva lavorato alla costruzione della strada tra l' Asmara e Addis Abeba, per giunta faticando non poco a farsi pagare dalla ditta presso cui era impiegato. E un altro ricorda di aver dovuto dormire in «brande di ferro senza un pagliericcio e senza niente». Alcune testimonianze menzionano il sollievo di incontrare a volte dei «compaesani», registrando invece il disagio di fronte ad italiani di altre regioni, per la «Babele di dialetti» che poteva far sentire ancora più sperduti. Fino alla comparsa di un pregiudizio antimeridionale dai toni quasi razzisti: «È doloroso dirlo - si legge in un diario - ma in Etiopia abbiamo mandato troppi meridionali. Sono troppo arretrati per avere autorità, per imporre quella che si chiama civiltà europea. Taluni di essi si trovano perfettamente a loro agio nella sporcizia dei tucul, perché nel loro paese pugliese o calabrese non ebbero mai nulla di meglio». L' impressione generale che si ricava da diari e testimonianze di civili, osserva la Stefani, è che «l' esperienza in Etiopia abbia smorzato, se mai c' era stata in questi individui, l' adesione al modello coloniale fascista». Ed è un' osservazione che riguarda gli stessi militari: un ufficiale, riflettendo sul fatto che in Africa sembrava non attecchire l' uso del «voi» imposto dal regime nel 1938 al posto del «lei», concludeva con l' impressione che lì, per la stessa lontananza dall' Italia, l' ideologia fascista fosse stata collocata «come in soffitta». Le testimonianze di italiani in Etiopia, coeve o posteriori, sembrano riproporre un immaginario coloniale largamente antecedente il fascismo, quell' insieme di sogni e fantasie esotiche (ed erotiche) sull' Africa che aveva caratterizzato già da fine Ottocento la popolazione maschile di vari Stati europei. Così, nelle descrizioni dovute alla penna di ufficiali o di civili colti, ritorna il topos - diffuso attraverso tanti racconti di viaggio e romanzi coloniali - dell' Africa come terra del mistero e dell' avventura, grande spazio popolato da animali selvaggi e per il resto vuoto o quasi di esseri umani (che la presenza degli indigeni fosse un dato del tutto marginale era stato appunto un elemento essenziale della rappresentazione europea del continente africano e una delle principali giustificazioni della sua conquista). Ritorna la contrapposizione tra la vita debilitante della madrepatria e quella «tonificante» ed «eccitante» della colonia. Ritorna la rappresentazione dell' Africa come paradiso dei sensi, quell' insieme di luoghi comuni sulla sfrenata e disinibita sessualità delle africane che aveva nutrito, dall' inizio del colonialismo, l' immaginazione di tanti europei. Si trattava di una rappresentazione in cui l' attrazione e la repulsione si mescolavano, a giudicare dalla facilità con cui la descrizione del fascino delle donne indigene poteva lasciare il posto alla caratterizzazione quasi animalesca delle africane. Ed era, questa, un' oscillazione che spesso corrispondeva al modo in cui la cultura dell' epoca contrapponeva il talento seduttivo delle donne arabe all' aspetto selvaggio delle «negre». I riferimenti alle indigene rappresentano un argomento molto frequentato nelle memorie di chi si era recato in Etiopia; ma nella realtà gli effettivi contatti erano stati sporadici, limitati alla prostituzione e, per alcuni ufficiali, al cosiddetto «madamato», un rapporto temporaneo d' indole coniugale destinato a terminare con il ritorno in patria. Una pratica, quest' ultima, che era da tempo giustificata con l' argomento che le stesse regole indigene la consentivano, e che spesso coinvolgeva donne giovanissime, quasi delle bambine. A partire dal 1937 il regime vietò ogni relazione di tipo coniugale fra italiani ed indigene, che divenne punibile con la reclusione da uno a cinque anni. Ma è probabile, osserva Giulietta Stefani, che la pratica rimanesse diffusa, benché in forma sommersa. Si tratterebbe di un ulteriore motivo, dunque, per ritenere che l' esperienza «africana» di tanti italiani venisse toccata solo in parte dalle direttive del regime e dai suoi progetti di costruzione dell' «uomo nuovo» fascista.

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