Vanitosi, crudeli, simpatici al popolo Quei principi che fecero sognare l'Italia

Corriere della Sera 23.9.07
La belle époque di Ferrara
Vanitosi, crudeli, simpatici al popolo Quei principi che fecero sognare l'Italia
di Carlo Bertelli

La città rivive la felice stagione vissuta a metà del '400 sotto il regno di Borso d'Este grazie alla rivalità tra i pittori Cosmè Tura e Francesco del Cossa.
E ora un patto con l'Ermitage di San Pietroburgo la pone al centro degli studi sul Rinascimento

Immaginiamo una Ferrara più piccola. Com'era prima dell'Addizione Erculea. Nella piazza, tra il duomo e la colonna con la statua equestre di Niccolò III, era allora non infrequente vedere Borso d'Este che s'intratteneva con i sudditi. «Mostrare l'amore per il popolo» era nel programma di un sovrano italiano del tempo. Il fratello di Borso, Lionello, l'aveva scritto espressamente ad Alfonso d'Aragona in un messaggio affidato proprio al fratello: occorre «ritenere per fermo che le fortezze degli stati consistono principalmente nell'amore dei sudditi». Niccolò Machiavelli rimproverò l'aspetto militare del castello di Milano, eretto quasi per intimidire i cittadini. Ma da tempi i Visconti figuravano nella letteratura politica fiorentina come esempi di tirannide. Tanto più, dunque, bisognava dimostrare di essere da loro diversi. «Non è più il tempo del duca Borso», pare che si dicesse a Ferrara ricordando la belle époque della città, quando il duca dava pubblici ricevimenti nel casino di Schifanoia, specialmente nel salone dove erano rappresentati gli astri e dove era dipinto il palio, la grande festa popolare che dal '200 univa tutti gli strati cittadini.
Modello ideale di questi principi era l'«ottimo imperatore» Traiano che aveva fermato l'esercito in marcia per rendere giustizia a una vedova. E difatti le loro idee di governo si erano formate leggendo i classici, in particolare a Ferrara, alla scuola dell'umanista Guarino Guarini. Esisteva, come sempre, una non piccola distanza tra gli ideali e la realtà.
Di uno dei principi illuminati, il patrono di Leon Battista Alberti, Matteo de' Pasti e Agostino di Duccio, tracciò un quadro spietato il papa Pio II Piccolomini. Crudele e lussurioso, nelle parole del Papa, Sigismondo era pure il devoto impietrito davanti al suo patrono nell'affresco di Piero della Francesca eseguito nell'edificio più sereno e classico che vi fosse mai stato, quella chiesa di San Francesco, a Rimini, trasformata nel Tempio Malatestiano.
Amato dal popolo era il nemico giurato di Sigismondo, Federico di Montefeltro. Su di lui gravava il sospetto di avere addirittura fatto uccidere il legittimo erede al trono per impossessarsene. I suoi balzelli non erano troppo pesanti e lo stato si sosteneva con le ricchissime prebende che venivano al principe dalle condotte militari. La fama di condottiero imbattibile era tale che talvolta Federico era pagato dalle due parti purché non scendesse in battaglia. Un suo ritratto eseguito dallo spagnolo Pedro Berruguete lo raffigura ormai vecchio, ancora in armi, ma intento alla lettura.
La biblioteca era il vanto di questi condottieri letterati. Federico era dottissimo, Malatesta Novello, il fratello di Sigismondo, mise tutte le sue fortune nella creazione della biblioteca di Cesena. L'incomparabile Bibbia di Borso d'Este rappresenta da sola tutta la grande scuola di miniatori ferrarese.
L'etichetta, le forme esteriori del potere erano giunte alle corti italiane dalla Francia e dalla Borgogna. Anche il gusto del bibliofilo era arrivato a Gian Galeazzo Visconti dall'esempio dei Savoia. Ma al contatto con gli ideali classici degli umanisti il mondo cortese si trasformò in una tensione verso quell'ideale del bello che noi identifichiamo con il rinascimento. E fu allora che l'Italia ebbe cose nuove da insegnare all'Europa.

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