Storia di Artemisia, eroina libera e geniale

L'Unità 11.7.07
Storia di Artemisia, eroina libera e geniale
di Gian Carlo Ferretti

Sessant'anni fa Anna Banti scrisse un romanzo sulla pittrice seicentesca: per la prima volta veniva raccontata la vita di questa artista, una donna in lotta con i pregiudizi del suo tempo

Di Anna Banti c’è una prima Artemisia scritta in piena guerra e perduta nell’estate 1944 sotto le macerie, e ce n’è una seconda pubblicata da Sansoni a Firenze nell’estate di sessant’anni fa. Un’opera costruita sull’intreccio-alternanza di diversi livelli narrativi, e di una prima e terza persona singolare: biografia e romanzo, dialogo della scrittrice con il suo personaggio e ricostruzione inventiva di ambienti e costumi seicenteschi tra Roma, Firenze, Francia, Inghilterra.
«Artemisia Gentileschi, pittrice valentissima fra le poche che la storia ricordi. Nata nel 1598 a Roma, di famiglia pisana. Figlia di Orazio, pittore eccellente. Oltraggiata, appena giovinetta, nell’onore e nell’amore. Vittima svillaneggiata di un pubblico processo di stupro. (…) Una delle prime donne che sostennero colle parole e colle opere il diritto al lavoro congeniale e una parità di spirito fra i due sessi». Così Anna Banti la presenta in un libro dedicato con discrezione «a R. L.», il marito Roberto Longhi, grande critico e studioso principe di Caravaggio e dei caravaggeschi, tra i quali i Gentileschi padre e figlia. Artemisia dunque è una donna ripetutamente offesa: lo stupro, il processo, la vergogna, il matrimonio riparatore con un marito «di ripiego», Antonio Stiattesi. Di qui una incapacità di amare e una maturazione personale precoce e dolorosa.
Ma Artemisia è anche una donna che, a differenza delle altre, sa reagire con orgoglio e determinazione. Eccola perciò mortificare e insieme esaltare la sua femminilità nel lavoro per committenti illustri e nell’autonomia della produzione artistica, trovando la sua rivincita anche nella rappresentazione di antiche eroine, come Giuditta: «tutto quel sangue di Oloferne che stagnava sulla tela».
C’è in lei la consapevolezza di una privilegiata superiorità e libertà, sia rispetto agli uomini schiavi del loro stesso potere, sia rispetto alle altre donne chiuse nelle loro silenziose rivolte: «Poveri uomini (…)travagliati di arroganza e di autorità, costretti da millenni a comandare, (…)queste donne che fingono di dormire al loro fianco e stringono fra le ciglia (…)eecriminazioni, voglie nascoste, segreti progetti. (…)”Ma io dipingo”, scopre Artemisia».
Neppure lei tuttavia può sfuggire a una condizione femminile originaria: è una donna eccezionale che sa dar voce e corpo alle tensioni che fermentano anche dentro la normalità delle sue consorelle, ma al tempo stesso soffre proprio della mancanza di quella loro normalità. Artemisia insomma ha l’inquieta coscienza di una personale incompletezza e vive un difficile processo di integrazione: la necessità di uno status e di una strategia sociale, il recupero del matrimonio in un primo tempo subìto, l’accettazione di un rapporto coniugale istituzionale e insieme paritario, il desiderio e il rinvio di un ritorno alla vera autonomia di pittrice, la ricerca di un equilibrio tra l’appartenere ad altri e l’essere se stessa.
Finché Artemisia fa la scelta di una casa e di una vita tutte sue. Anche se è una scelta che neppure una «donna forte» come lei, può compiere impunemente. Il rapporto con Antonio non sarà più lo stesso, e Artemisia resterà sola con una figlia in grembo, costretta a trasformare la sua pur contrastata completezza di moglie, in una ormai irreversibile e dolorosa autosufficienza di donna-madre. Artemisia si trova così a incarnare uno status del tutto anomalo e indefinibile: «Quale sia, di preciso, la sua condizione, nessun confessore ha saputo spiegarglielo, per quanto abbia insistito: come, del resto, per meditar che faccia, non le è riuscito di riconoscersi e definirsi in una figura esemplare e approvata dal secolo. (…)Questa è donna che in ogni gesto vorrebbe ispirarsi a un modello del suo sesso e del suo tempo (…)e non lo trova».
Nell’affrontare il mondo allora, non le resta che armare di sicurezza e alterigia la sua vulnerabilità e fragilità di donna e donna-madre sola, e di artista sottostimata in quanto donna. Passano gli anni, con una carriera crescente, altri amori e insinuazioni malevole dei vari ambienti, con la figlia maritata e il padre che la chiama in Inghilterra, dove ha una posizione importante ed è un «protetto di Sua Maestà». Qui Artemisia vive il ricongiungimento familiare prima come accettazione di un rapporto protettivo e rassicurante, e poi come regressione filiale, domestica e in definitiva tradizionale: «lavare fazzoletti, lucidare una scatola o un piatto». È il desiderio di normalità sociale e affettiva che torna a farsi sentire.
Il ritorno alla pittura e all’indipendenza le viene quasi imposto da una fama e da un ruolo ineludibili. Di lei si parla alla corte del re, finché la regina siede davanti a lei per un ritratto. Ma il passato di Artemisia torna inesorabile con le sue opposte esperienze, sia nelle offese che deve scontare per la posizione di donna libera e amante, sia nelle ritornanti cure filiali al padre malato. È come un cerchio che si chiude, fino alla morte del padre e di lei.
L’Artemisia di Anna Banti si può interpretare in almeno tre modi. Una prima chiave di lettura sembra scaturire dal bilancio insoddisfatto e autocritico che la scrittrice traccia della sua ricostruzione letteraria, quasi sottolineando la difficoltà-impossibilità oggettiva di liberare Artemisia dalle sue contraddizioni: «L’ho indotta a sottoscrivere i gesti di una madre sola e imperfetta, di una pittrice dal valore dubitoso, di una donna altera ma debole, una donna che vorrebbe esser uomo per sfuggire a se stessa. E da donna a donna l’ho trattata, senza discrezione, senza virile rispetto. Trecento anni di maggiore esperienza non mi hanno insegnato a riscattare una compagna dai suoi errori umani e a ricostruirle una libertà ideale, quella che la affrancava e la esaltava nelle ore di lavoro, che furono tante. E ormai non so che cimentarla, per farla parlare, sui ricordi di una maternità infelice, il solito argomento delle donne».
Ma si può anche sostenere che il personaggio di Artemisia trova una pregnanza di significati proprio nella sua irrisolta contraddittorietà: in quella impossibilità a realizzare un equilibrio tra eccezionalità e normalità, tra l’essere donna in modo tradizionale e trasgressivo, tra il piacere e il peso dell’appartenere ad altri (il padre, il marito, la figlia) e il piacere e peso di appartenere a se stessa (la solitudine, la pittura). Impossibilità perciò a realizzare un modello di esistenza e di comportamento veramente nuovo. E conflitto che attraversa Artemisia in tutte le sue esperienze, da quelle più private a quelle più pubbliche, dal mondo segreto dei sentimenti alla esibita vita di relazione.
La terza interpretazione, che sottintende certamente molte implicazioni delle altre due, è quella più evidente e diretta. Nel presentare all’inizio Artemisia e nel reinventarne poi la storia anche attraverso un ritornante dialogo con lei, Anna Banti valorizza infatti la sua sottile attualità, facendone l’eroina di un audace e vulnerabile protofemminismo.

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