Salvator Rosa, un talento fuori misura

l’Unità 25.5.08
Salvator Rosa, un talento fuori misura
di Renato Barilli

TRA MITO E MAGIA A Napoli un’affascinante rassegna dedicata a quest’artista stravagante, che anziché seguire l’impronta caravaggesca del secondo Seicento si divertiva a ritrarsi nelle pose più bizzarre

Domenica scorsa elencavo i meriti di Claudio Strinati, soprintendente del polo museale romano, ma non è certo da meno il suo collega Nicola Spinosa, insediato alla testa del polo napoletano, abituato da tempo a servirci mostre puntuali e intriganti negli spazi nobili del Museo di Capodimonte e delle sedi associate. Ora è di turno una affascinante rassegna dedicata a Salvator Rosa (1615-1673), per la cui realizzazione Spinosa è affiancato da molti validi aiuti. Il Rosa fu un talento fuori misura, stravagante, nel senso letterale della parola, a cominciare dal fatto che uscì fuori dal seminato consueto nella pittura partenopea del secondo Seicento, improntata al caravaggismo che il genio lombardo vi aveva impiantato, negli anni da lui trascorsi nelle nostre regioni meridionali. E proprio al caravaggismo della grande tradizione napoletana in passato il Museo di Capodimonte aveva reso ampio omaggio, nelle persone di Mattia Preti, i cui dati anagrafici ne fanno quasi un coetaneo del nostro Salvator Rosa, e di Luca Giordano, proteso a fare da ponte tra il secondo Seicento e il Settecento. Ma in quegli artisti predomina un senso di tutto pieno, le figure sono assorbite dal contesto ambientale, atmosferico, naturale, non riescono ad emergerne. Viceversa il primo impulso di Salvator Rosa è di fare il vuoto attorno ad esse. Egli ci appare come superbo ritrattista, anzi, di più, come stupefacente compilatore di autoritratti a getto continuo. In proposito risultano molto puntuali le osservazioni affidate al catalogo della mostra da Brigitte Daprà, che appunto ci fa notare come allora l’artista era figura socialmente inferiore, di artigiano, e il suo talento di ritrattista doveva essere prestato alla maggior gloria degli illustri committenti. Il Nostro invece mette in scena spavaldamente se stesso, concedendosi una serie inesausta di pose e di costumi. Talvolta ci si presenta come filosofo, pronto anche a scivolare nei panni dello stregone, dell’addetto a pratiche magiche. Altre volte si dichiara guerriero, e ne assume le pose marziali, spavalde, ribelli, altre volte ancora ostenta addirittura una maschera da teatro, pronto a indossarla e a nascondersi in quel nuovo ruolo. Lo stesso vale nel caso dei soggetti femminili, che entrano nei panni delle allegorie, la menzogna, la gelosia, lo studio. In altre parole, questo artista non vuole essere un uomo del mestiere, bensì un fine umanista, versato nelle lettere come nel pennello. Ne consegue che lo spunto tematico, nel suo caso, vale assai più della resa pittorica, c’è in lui una sfida continua al pittoricismo, al tonalismo, a tutte le altre virtù del mestiere cui invece sacrificavano i suoi colleghi. Viene da qui quel carattere di anacronismo che lo riguarda, come se si staccasse dai suoi tempi e si protendesse in avanscoperta di quasi un secolo, anticipando situazioni che conosceremo solo all’aprirsi di quella voragine che, proprio contro i vari naturalismi dell’età barocca, sarà costituita da movimenti di difficile definizione quali il neoclassicismo e il romanticismo. Ebbene, di tutto questo clima è precursore il Nostro, a cominciare proprio dalla volontà di far fare un passo indietro al mestiere, di lasciare che i soggetti prevalgano sulle mezze tinte, sugli atmosferismi pervasivi. Una volta tanto, il sottotitolo dato alla mostra, che ne pone il protagonista Tra mito e magia, appare calzante, proprio nella misura che ci fa capire come in questo imperioso e scapricciato personaggio la pittura sia sempre preceduta, ed ecceduta, dall’altro. Questa preminenza dei temi impone le varie soluzioni stilistiche, che potrebbero apparire alquanto dissonanti. Talora, se si tratta di autoritratti, l’artista fa il vuoto attorno alle sue proiezioni, con sfondi chiari, quasi in anticipo su un David. Talaltra, se vuole raccontare, farci entrare negli antri del mago dove si conducono esperimenti con tanto di scheletri, la pennellata si fa sottile, quasi un guizzo di luce che si insinua nelle forme, con segno agile, appuntito, fosforescente. C’è come una lingua di fuoco che percorre le membra delle varie figure, appartengano esse al mito o a un museo degli orrori. Che è come dire che Salvator Rosa non assume mai un atteggiamento contemplativo, passivo di fronte ai motivi trattati, ma al contrario li aggredisce, li sferza con cariche di energia, costringendoli a un dimagrimento, facendoli vivere solo grazie a quei raggi luminosi che li percorrono, estraendoli dalle tenebre. E quasi per favorire questo supplemento energetico, anche le capigliature si scompigliano, si estenuano in lunghe ciocche, che si dimenano nell’aria come fossero rami di una vegetazione impazzita, presaga di un imminente temporale da cui l’atmosfera è resa carica di elettricità, pronta a emanare scintille, o ad attirare a sé lo scoccare di un lampo. In virtù di questo vivace impulso energetico Rosa riesce a praticare con pari eccellenza due dimensioni quasi opposte tra loro, per un verso, come si è detto, isola e ingigantisce il protagonismo di un soggetto pieno di sé e dei suoi poteri magico-stregoneschi, per un altro verso intesse storiette, vicende gremite di personaggi, come per esempio le sue celebri battaglie, dove la microscopia delle singole presenze è largamente ricompensata dai pennelli di luce che le percorrono, le sferzano, le rendono guizzanti, scoppiettanti.

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