La vera storia dei favolosi inca

La Repubblica 15.6.07
La vera storia dei favolosi inca
Nuovi documenti sulla Conquista in un saggio di Laura L. Minelli
di Adriano Prosperi

Il saccheggio delle immense ricchezze fu devastante
Il grande Impero crollò in mezzo ai barbagli del dio oro
La mia impresa scrive Colombo in una lettera inedita, fu una grande opera di misericordia
Una denunzia contro Pizarro inviata a Carlo V lo accusava di aver avvelenato i guerrieri

La conquista del grande impero del Sole è una delle pagine più celebri della storia mondiale. Nel 1532 un pugno di spagnoli comandati da Francisco Pizarro incontra l´inca Atahuallpa a Cajamarca. E´ un incontro breve e violento: un frate porge all´Inca il suo breviario e gli chiede di adorare il Libro sacro degli spagnoli, l´Inca lo getta a terra con disprezzo, Pizarro lo fa prigioniero mentre i suoi uomini sbaragliano l´esercito dell´Inca. Il grande impero crolla in mezzo agli accecanti barbagli non del dio Sole di cui gli Inca erano creduti i figli, ma del nuovo dio dei conquistatori: l´oro. Sotto il segno dell´oro si scatenò il saccheggio di un impero immenso, esteso dall´altipiano andino alle coste del Pacifico e alle foreste tropicali amazzoniche. Conquista difficile, ostacolata da guerre e ribellioni ma anche dai contrasti tra i conquistadores. L´intervento di una burocrazia imperiale spagnola assistita dal clero cancellò le tracce della religione e della cultura antica. Ma rimasero nella memoria dei popoli andini episodi di resistenza eroica come quello di Tupac Amaru asserragliato a Machu Picchu. Il termine «tupamaro» come sinonimo di ribelle doveva entrare nel vocabolario europeo, mentre anche la parola Perù diventava nome comune, sinonimo di ricchezze strepitose.
Di quel mondo immenso e misterioso, del suo passato e della sua cultura rimasero tracce come i grandi templi o la rete delle strade irraggiantesi da Cuzco. E restarono le narrazioni storiche, quelle trionfali della Spagna conquistatrice ma anche quella di un uomo che recava nel proprio sangue l´eredità antica degli Inca accanto a quella dei conquistatori: Garcilaso de la Vega «el Inca». I suoi Commentari reali dalla data della prima edizione spagnola (1606) non hanno più cessato di popolare la fantasia dei lettori coi colori dei mondi cancellati e delle loro favolose ricchezze. Forse solo i poemi omerici hanno alimentato in maggior misura le emozioni e le passioni di cui si nutre l´archeologia; con la differenza che la storia degli Inca non appartiene alla cultura europea: è come un fiume maestoso che improvvisamente si inabissa e scompare.
Garcilaso conosceva sugli Inca le storie ascoltate durante l´infanzia: favole, canzoni, ricordi di epoche lontane. Ma aveva anche letto un libro di storia che non ci è rimasto: la storia dell´Impero Inca del gesuita Blas Valera. Era scritta - dice Garcilaso - in un latino elegantissimo, ma era stata distrutta nel corso del sacco di Cadice a opera degli inglesi nel 1596 e poco dopo anche l´autore era morto.
Era veramente morto Blas Valera? Anni fa dall´archivio privato di una famiglia napoletana è emerso tra altri documenti un memoriale di Blas Valera datato 10 maggio 1618 e indirizzato al «popolo suo» (quello dei conquistati): vent´anni dopo la sua presunta morte, Blas Valera era vivo anche se costretto all´esilio e scriveva un durissimo atto d´accusa contro chi aveva distrutto il suo popolo e devastato la sua terra. Quanto a Garcilaso, lo accusava di aver saccheggiato la sua opera tradendone lo spirito e aggiustando i fatti narrati agli interessi dei padroni spagnoli. Nella scatola che contiene il memoriale sono conservati altri documenti veramente singolari di cui si è discusso di recente in convegni di specialisti. Oggi finalmente il tutto viene messo a disposizione degli studiosi dall´archeologa americanista bolognese Laura Laurencich Minelli in un robusto volume che contiene trascrizioni e traduzioni dei documenti corredati di saggi e di annotazioni, nonchè una utilissima serie di riproduzioni fotografiche («Exsul immeritus Blas Valera Populo suo» e «Historia et rudimenta linguae Peruanorum», Indios, gesuiti e spagnoli in due documenti segreti sul Perù del XVII secolo, a cura di Laura Laurencich Minelli, Clueb). La storia di questi documenti e della loro circolazione è segnata da un fitto segreto e da ambienti dove l´esoterismo era di casa: confessori ed eretici, indios e gesuiti se li passarono di mano in America finchè, giunti a Napoli nel ‘700, finirono in mano a un celebre personaggio che coltivò un proprio inquietante mondo di arti segrete e maledette: il principe napoletano Raimondo de Sangro. L´esame diretto di queste fonti tuttora in mani private ma finalmente accessibili agli studiosi grazie a questo volume permetterà verifiche e approfondimenti. Ma intanto è giusto che se ne dia un resoconto ai lettori curiosi.
I nuclei del dossier sono almeno tre. Quello centrale riguarda la storia di Blas Valera e del gruppo a lui legato. Poi ci sono quelli relativi a Cristoforo Colombo e soprattutto a Pizarro e alla giornata di Cajamarca del 1532. Un terzo nucleo è relativo alla decifrazione dei quipus, la scrittura fatta di cordicelle annodate in uso nell´impero degli Inca. Questa parte linguistica è appassionante e permette anche ai profani di entrare (con l´aiuto competente di Laura L. Minelli) nei segreti di una scrittura fatta di nodi, di numeri e di pezzi di materia, remotissima dalle nostre pratiche e dalle nostre concezioni. Ma sarebbe lungo descriverla; perciò qui fisseremo lo sguardo su di un´altra questione, quella che si può definire «l´altra faccia della Conquista».
Un frammento di lettera di Colombo è la prima scoperta che si fa in questo dossier. Il corpo disperso dell´epistolario del grande navigatore si arricchisce così di una testimonianza inedita, anche se lacerata e parziale: la lettera, scritta da Siviglia al figlio Diego, reca la celebre firma di Colombo come «Christum ferens». E questa è una chiave importante per capire tutta la vicenda.
Colombo, com´è noto, amava presentarsi come lo strumento della Provvidenza divina per la grande impresa della diffusione del cristianesimo nel mondo e della conclusione messianica dei tempi della storia umana. In questo frammento si decifra solo una sua frase che dice (in castigliano): «la mia impresa fu una grande opera di misericordia». Sembra che Blas Valera abbia ricevuto questo frammento dal gesuita Juan de Mariana, grande storico e ardito teorico del diritto dei popoli di ricorrere al tirannicidio contro i sovrani ingiusti. Blas Valera maledice Colombo, che per lui è figlio del diavolo e non di Cristo. E fa sue le parole di una canzoncina circolante in una confraternita di indios peruviani: «Maledetta sia l´ora in cui Colombo partì, la Santa Maria lo portò,. .. Benedette siano le Indie... Colombo le scoprì, Cortes le distrusse, Pizarro le avvelenò».
Chi scrive queste parole è un missionario gesuita figlio di una donna india e di uno spagnolo, un uomo che odia il padre e ama la madre, che combatte i dominatori spagnoli ma ne condivide la religione. In lui si incontrano tutte le contraddizioni e le delusioni della conquista del Nuovo Mondo. A distanza di poco più d´un secolo dal viaggio di Colombo, Valera e i gesuiti che lo circondano portano avanti in segreto una battaglia per la tutela degli indios dai conquistatori: ma la loro battaglia è combattuta in nome del sogno messianico di un cristianesimo rinnovato e della missione apostolica propagandata da Colombo.
Questa faccia nascosta della conquista è quella di una cultura meticcia: uomini come Garcilaso de la Vega, come Blas Valera, sono nati su quella prima linea dello scontro di popoli che fu la violenza dei conquistadores sulle donne del Nuovo Mondo ma hanno poi formato la loro cultura nelle scuole dei gesuiti europei.
Blas Valera, per odio al nome spagnolo del padre, si era dedicato alla stesura di una contro-storia della conquista.
In questo dossier figura il documento principale di cui era entrato in possesso: il testo originale di una denunzia contro Pizarro inviata a Carlo V da Francisco de Chaves, uno dei conquistadores, il 5 agosto 1533: Chaves vi accusava Pizarro di aver distribuito barili di vino avvelenato con l´arsenico agli uomini dell´Inca, che erano morti immediatamente lasciandolo così in balia degli spagnoli. Quella denunzia Blas Valera la conservava per il suo popolo a documento che la conquista era stata basata sulla frode e che perciò gli spagnoli non avevano nessun diritto di dominio sul popolo andino.
Si capisce che la sua opera di storico aveva creato gravi imbarazzi politici alla Compagnia di Gesù. Perciò Blas Valera aveva dovuto sparire di circolazione, fingersi morto. Ma non per questo aveva cessato di dedicarsi alla sua missione di storico. A quanto emerge da questi documenti fu dalla sua collaborazione con l´indio Guaman Poma de Ayala che nacque quell´opera straordinaria che è la «Nueva coronica y buen gobierno», con le sue sconvolgenti rappresentazioni pittoriche delle violenze dei conquistatori.
Sono passati secoli da queste vicende. L´impero spagnolo è scomparso, la decolonizzazione ha obbligato la cultura europea a guardare l´altra faccia della sua conquista del mondo. Ma finora questa ricerca è rimasta velleitaria e inappagata. Vedere la storia con gli occhi dei vinti: ci riusciremo mai? Lo sguardo dall´alto dei vincitori ha molti cronisti pronti a descriverlo, mentre l´ultimo sguardo di chi sprofonda nella sconfitta si inabissa con lui e molto raramente trova un testimone disposto a raccoglierlo. I sommersi restano senza storia e senza volto, come quei naufraghi attaccati ai bordi di una rete per tonni che abbiamo visto in una foto recente: un cerchio di esseri indistinti e lontani, già oltre i confini della specie umana, quasi una via di mezzo tra i pesci e noi.
Attraverso il dossier di Blas Valera non è la voce dei sommersi dell´America precolombiana che ci giunge da lontano. La storia che questi documenti raccontano è un´altra: quella di una cultura meticcia di mediatori e di missionari gesuiti che cercò di porre un argine agli orrori consumati sul popolo americano in nome del cristianesimo europeo.

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