Il mito euroasiatico di Alessandro Magno

Il Manifesto, 30 maggio 2008
A Salonicco
Il mito euroasiatico di Alessandro Magno
Mostre Al museo archeologico, opere dalla Macedonia e dall'Italia
Francesco Stella

Qualche anno fa in un convegno sulla traduzione letteraria un poeta milanese cominciò il suo intervento esaltando Alessandro Magno come «il più grande dei traduttori». Lì per lì parve una trovata scenica, ma se è vero che la traduzione è strumento primario di conoscenza fra culture diverse allora quella di Alessandro il Macedone fu veramente una grandiosa opera di traduzione: le sue travolgenti conquiste diffusero l'uso del greco in quasi tutto il mondo conosciuto, dal Danubio all'Amu-Darja, ponendo le premesse perché la rielaborazione araba ritrasmettesse poi la cultura greca all'Europa medievale. Questo ruolo di mediatore culturale ha dato alla leggenda di Alessandro un alone esotico che proietta il tipo dell'eroe nella dimensione dello scopritore di mondi nuovi, e ha generato una produzione infinita di narrazioni, iconografie e riscritture, dal mosaico della Casa del Fauno al film di Oliver Stone, dalla menzione nel Corano ai manga giapponesi alle canzoni di Veloso o Vecchioni.
Secondo il geografo Strabone «tutti coloro che scrissero di Alessandro preferirono il meraviglioso al vero», perché l'essenza di Alessandro è il meraviglioso, l'incontro col diverso che si traduce in epica dell'impossibile. Le tante versioni medievali del Romanzo di Alessandro riflettono infatti il fascino di questa figura nei racconti fantastici di imprese che anticipano i progetti di Leonardo, i romanzi di Verne o i sogni degli alchimisti: la discesa sotto il mare col batiscafo di vetro illuminato dall'interno, la salita in cielo con un apparecchio trainato da grifoni, la visita alla Fontana dell'eterna giovinezza sorvegliata da serpenti crestati e dragoncelli volanti. Ma gli episodi che più rivelano lo spirito del viaggiatore instancabile come esploratore attratto dall'ignoto sono quelli che toccano il confine fra umano e sovrumano, come nell'Alessandreide di Walter di Châtillon, dove la Natura rimprovera ad Alessandro la mancanza di un senso del limite, che lo trascina ad assediare il Paradiso e il Caos, gli antipodi e il sole di altri universi: «Fin dove si spinge, Grande Alessandro, la tua fame? Qual è il limite / al possesso, alla ricerca? Che misura, che fine hanno le tue fatiche? / Pazzo, nulla realizzi! Quand'anche avrai racchiuso tutti i regni / sotto un solo potere, e sottomesso il mondo, / resterai povero. Una mente che non ha bisogno di nulla / non la producono le cose, ma il bastare a se stesso». Questa tensione esercita un fascino transculturale che emerge in termini quasi identici nella Persia del X secolo: qui il poeta Firdusi immagina il re che arriva a una casa di luce rossa in cima a un monte rosso, con due troni vuoti.
Il mito medievale di Alessandro trova il suo vertice iconografico nel celebre mosaico della cattedrale di Otranto, che rappresenta il grande albero della vita ai cui rami sono appesi animali fantastici e non, e personaggi biblici e storici. Fra questi, accanto a re Artù, un Alessandro vestito di porpora, col diadema bianco e azzurro, seduto su un trono portato in volo da grifoni alati: una presenza enigmatica il cui significato è stato interpretato come simbolo del peccato di superbia oppure (paradossalmente) come prefigurazione dell'azione unificatrice della Chiesa. Una riproduzione su tela a grandezza naturale di questo grandioso mosaico è ora visitabile al Museo Archeologico di Salonicco nell'ambito della mostra Alessandro Magno: Opere dalle Collezioni dei Musei della Macedonia e Iconografia del Mito in Italia, inaugurata il 28 maggio e aperta fino al 15 novembre.
L'allestimento e il bel catalogo di Gangemi espongono dunque al pubblico greco in riproduzione fotografica le «traduzioni» italiane di questo mito eurasiatico, in un gioco di rielaborazioni e di ricerche che ne esplora le tracce, dal monumento equestre di Lisippo (trafugato da Cecilio Metello) fino ai tanti reimpieghi rinascimentali o neoclassici, concludendo con le decorazioni di Villa Torlonia riaperta nel 2006. Il documentario di Michele Fasano, riportato in catalogo come saggio, ipotizza nell'Alessandro del mosaico idruntino una traccia della cultura monastica greca in Terra d'Otranto: un segno di quella cultura del dialogo che portava a San Nicola di Casole manoscritti greci, arabi, ebraici e latini. Ma la presenza di Artù rende più probabile l'influenza della cultura normanna, e dunque sovrappone a questo idillio mediterraneo la reintepretazione del mito macedone da parte delle culture nordeuropee.
Un vero groviglio interculturale che la mostra scioglie con eleganza nella giustapposizione di due serie di opere: da una parte le memorie italiane, fra cui l'anfora di Ruvo, la statuetta di Ercolano, il mosaico e i dipinti di Pompei, la sognante testa vaticana; dall'altra i capolavori dei musei macedoni, comprese le fantastiche corone auree delle tombe reali, una delle quali è stata restituita recentemente alla Grecia dal Getty Museum di Los Angeles.

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