«Civiltà dell’Europa? La radice è nei Lumi»

l'Unità 25.6.07
«Civiltà dell’Europa? La radice è nei Lumi»
di Roberto Carnero

TZVETAN TODOROV ha scritto un saggio dedicato all’Illuminismo e ha ricevuto il Premio Grinzane Cavour per il suo impegno a favore dell’incontro fra le culture. In questa intervista ci spiega il senso del suo «cosmopolitismo»

Autonomia, laicità, verità, umanità e universalità: questi secondo Tzvetan Todorov i cinque valori chiave dell’Illuminismo, un movimento di idee di cui oggi egli ci aiuta a riscoprire l’attualità. Morto Dio e crollate le ideologie, è proprio nello «spirito dell’illuminismo» che dobbiamo ripartire secondo il grande pensatore di origini bulgare naturalizzato francese. Lo spirito dell’illuminismo è anche il titolo di un libro da poco pubblicato da Garzanti (traduzione di Emanuele Lana, pagine 128, Euro 11,00). Ultima opera della foltissima bibliografia di Tzvetan Todorov, che per il lavoro di una vita intera di studi e ricerche, oltre che per l’impegno di intellettuale militante, è stato insignito sabato del prestigioso premio Grinzane Cavour «Dialogo tra i continenti».
Todorov, nel suo ultimo libro lei prova a spiegare l’attualità dell’illuminismo. Si tratta secondo lei di una via che è ancora possibile percorrere?
«L’illuminismo ci ha dato un’eredità che è importante riprendere e ritrovare, ma dobbiamo compiere questa operazione in maniera critica e selettiva. In altre parole dobbiamo valorizzare, oggi, alcuni aspetti della tradizione illuministica, ma anche criticare, per altri versi, l’illuminismo stesso. Uno degli insegnamenti di quella cultura è infatti quello di rifiutare i dogmi. E noi ovviamente non dobbiamo correre il rischio di credere a una sorta di dogma illuministico».
Dunque che cosa dovremmo prendere e che cosa invece tralasciare?
«Vanno evitate le deviazioni di una cultura ricca come quella illuministica. L’illuminismo ha lottato principalmente per due obiettivi: l’esercizio della sovranità da parte del popolo e la libertà degli individui dalle imposizioni esterne, religiose e anche politiche. È tutto qua, ma mi sembra un insegnamento non da poco. Dobbiamo però essere in grado di evitare il rischio di una sistematizzazione esteriore e abusiva della ragione illuministica, che finirebbe per negare la complessità interiore e la diversità. Questa dittatura di una ragione astratta è figlia illegittima dell’illuminismo stesso. Che invece ha affermato il principio della libertà di coscienza e i diritti inalienabili dell’uomo. In questo senso è lo stesso illuminismo a insegnare a non essere dominati dallo scientismo. E ancora: l’illuminismo ha combattuto per l’universalità del genere umano. Ma non si possono imporre le medesime istituzioni e i medesimi valori a tutta l’umanità, come certi politici oggi sembrano voler fare o forse fingono di voler fare per altri scopi meno nobili. Questa deviazione verso la creazione di un governo mondiale è qualcosa da combattere. Quella illuministica è un’eredità complessa e questa complessità va preservata. In essa coesistono l’universalismo e l’attenzione alle diversità».
Viviamo in un mondo sempre più globale, ma in cui paradossalmente, forse per reazione a questo processo di globalizzazione, prendono piede particolarismi di ogni genere. C’è una contraddizione tra queste due spinte, oppure possono accompagnarsi in un processo virtuoso?
«La nostra epoca è caratterizzata da una nuova valorizzazione degli elementi locali, ma in un contesto di mondializzazione. Le due esigenze possono combinarsi. Mi sembra che lo testimoni il progetto di una realtà come l’Unione Europea. Nel corso dei secoli l’Europa ha conosciuto diversi tentativi di unificazione: da Carlo V a Napoleone fino, nel Novecento, a Hitler. Ma si trattava sempre di uno stato più forte che provava a sottomettere gli altri, imponendo se stesso e le proprie leggi agli altri Paesi. L’Unione Europea oggi sta invece provando a conciliare le esigenze delle regioni europee (prima ancora che degli stati europei) con una realtà politica più ampia. È la prima volta che si sta cercando di preservare l’autonomia delle nazioni all’interno di una realtà sovranazionale. Forse l’Unione Europea potrà servire da modello ad altre parti del mondo».
Eppure in molti sono scettici sulla tenuta e sull’efficacia dell’Ue. A parte le polemiche di questi giorni tra i diversi Paesi membri, sembra non esserci un movimento culturale diffuso a sostegno di questa realtà. Tanto che l’Europa unita appare spesso come un’area di libero mercato, senza che ci sia un’azione politica di alto profilo.
«Io sono un’europeista convinto, non ho difficoltà ad ammetterlo. Forse è per questo che non condivido affatto il pessimismo dell’analisi che lei riferisce. Oggi mi sembra che l’Europa abbia un respiro politico di una certa ampiezza, anche se è vero che ci sono degli spazi di miglioramento. Ma ogni esperienza umana è perfettibile, ciò vale per qualsiasi realtà».
Tornando alle basi culturali del nostro continente, quali sono le radici di questa cultura? Certo c’è l’illuminismo, ma autorità religiose come il Papa vorrebbero un esplicito riferimento alla componente cristiana. Lei cosa ne pensa?
«Penso che sia impossibile ridurre l’identità dell’Europa a un contenuto singolo. L’Europa non è semplicemente la conseguenza del mondo greco-romano, del pensiero giudaico-cristiano o della cultura illuministica, di Platone o di Aristotele, del cristianesimo, dell’amor cortese dei trovatori o dell’epica cavalleresca. L’Europa è stata la culla della tolleranza e dell’universalismo, ma anche della più violenta intolleranza e dei più biechi particolarismi. La sua storia è fatta di luci e di ombre, di cui dobbiamo essere consapevoli».
E oggi?
«La cultura europea è una cultura viva e come tutte le cose vive muta e cambia di continuo. Per questo andrebbe evitato l’irrigidimento in posizioni univoche ed escludenti».
Qual è il ruolo delle religioni in questo processo?
«Io posso parlare due o tre lingue, ma non posso seguire contemporaneamente due o tre religioni. Non posso essere insieme cattolico e protestante, cristiano e musulmano. Esiste una prerogativa della fede religiosa che è la sua esclusività. Una prerogativa che invece non è delle culture, le quali possono integrarsi tra loro. Credo che noi tendiamo ad attribuire un’eccessiva importanza al vocabolario religioso con cui si pongono delle rivendicazioni che di per sé poco hanno a che fare con la religione».
Cioè?
«Ad esempio il fondamentalismo islamico adopera un vocabolario religioso funzionale a delle rivendicazioni che religiose non sono, bensì sono politiche. Tuttavia quel lessico religioso consente di esprimere le questioni politiche in modo più forte ed efficace. Dovremmo imparare a distinguere i due piani, perché non credo che siano le religioni in sé il vero problema, quanto piuttosto l’uso strumentale che se ne fa».
Veniamo alla Francia, dove lei vive da più di quarant’anni. Dall’Italia abbiamo assistito al successo di Nicolas Sarkozy con l’impressione che i francesi abbiano voluto mettere alla presidenza del loro Paese il classico «uomo forte». È così?
«Penso che in Francia prima delle ultime elezioni presidenziali si sentisse un diffuso bisogno di rinnovare la politica per rinnovare la società. C’era cioè il desiderio di cambiare non solo le persone, ma anche il modo di fare politica. Con la sua carriera quasi cinquantennale, un uomo come Chirac dava ormai l’impressione di un certo immobilismo, dell’atteggiamento di chi si accontenta delle buone intenzioni e delle belle parole, senza mai passare ai fatti. Sarkozy è apparso più giovane, diretto, franco, trasparente, deciso. È stato visto come un personaggio con delle idee che non erano solo il risultato dell’appartenenza a una certa parte politica, ma la conseguenza di convinzioni personali. Credo che proprio per questo i francesi lo abbiano votato massicciamente. Volevano non tanto un uomo forte, quanto un uomo d’azione. E lui, con il suo modo di fare, è l’incarnazione, a tratti anche un po’ eccessiva, di un tale dinamismo e di un tale attivismo: viaggia nella stessa mattinata da una capitale all’altra, alle quattro del pomeriggio incontra i magistrati, alle cinque gli operai di Tolosa, alle sette pronuncia un discorso al parlamento. Rimane però da chiedersi se tutto ciò sia sostanza o solo apparenza. A questo non so rispondere: del resto mi considero francese solo per tre quarti. E per l’altro quarto non so neanch’io cosa sono».

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