Lo sguardo inquieto di Caravaggio

IL DIPINTO Lo sguardo inquieto di Caravaggio
10/06/2007 il mattino

Dalle ricerche d’archivio alla riscoperta dell’ultima opera del grande pittore grazie a Banca Intesa

Nicola Spinosa La Sant’Orsola confitta dal tiranno, così come l’opera viene segnalata nelle antiche carte di archivio, ebbi modo di vederla la prima volta giovanissimo, nel 1963 al Palazzo Reale di Napoli, in occasione di una mostra sul Caravaggio e sui caravaggeschi. Il dipinto, che era ancora di proprietà di Romano-Avezzana a Eboli, prima di essere di lì a poco acquistato dalla Banca Commerciale Italiana, era stato segnalato da Ferdinando Bologna ed esposto in mostra con una discussa attribuzione a Mattia Preti. Devo, tuttavia, confessare che, o per ignoranza o per inesperienza, forse anche per il mediocre stato di conservazione in cui l’opera allora si presentava, non ricordo che riportai una grande impressione di quel primo incontro con la Sant’Orsola. Così, invece, non fu dieci anni dopo, quando, entrato da poco a far parte dello staff scientifico della Soprintendenza, l’opera fu affidata, per il necessario intervento di restauro, alle cure di Antonio De Mata, nei laboratori del Museo di Capodimonte e sotto la direzione di Raffaello Causa. E fu per me un’esperienza emozionante, quella vissuta durante il complesso e difficile intervento cui la Sant’Orsola fu nell’occasione sottoposta: emozionante perché, proprio grazie a De Mata (...), seppi finalmente apprezzarne le altissime qualità pittoriche e di resa emozionale del tragico evento illustrato dal pittore lombardo. Da allora della Sant’Orsola, dipinta dal Caravaggio per il principe Marcantonio Doria a Genova, poco prima di ripartire da Napoli per tentare inutilmente di far ritorno a Roma, sappiamo ormai tutto, grazie alle ricerche archivistiche di Vincenzo Pacelli e agli studi di Ferdinando Bologna e di Mina Gregori. Meglio, sapevamo quasi tutto. Almeno fino a quando, presentatasi la necessità di sottoporre il dipinto a un intervento conservativo e di «messa a punto» delle superfici pittoriche intanto fortemente alteratesi col passare degli anni, la nostra Soprintendenza non propose a Banca Intesa, nella cui proprietà era confluita anche la ricca e prestigiosa collezione d’arte già Comit, di affidare l’opera alla provata esperienza di Carlo e Donatella Giantomassi. La Banca aderì con entusiasmo, coordinando gli approfondimenti scientifici e sostenendo in proprio l’onere del restauro, e infine - viste le rilevanti novità emerse - progettò una mostra itinerante per proporre al mondo scientifico e culturale la «riscoperta» della Sant’Orsola. L'intervento di restauro, sotto la direzione di Denise Maria Pagano, si è potuto realizzare all’interno dei laboratori dell’Istituto Centrale per il Restauro di Roma. (...)La Sant’Orsola, forse l’opera più ampiamente e meglio documentata di Michelangelo Merisi da Caravaggio, è non solo l’ultima opera dipinta da quest’ultimo prima della morte, ma anche o soprattutto il documento più esplicito di quella sua intensa stagione d’arte e di vita, che iniziata con la sofferta fuga da Roma, dopo il 28 maggio del 1606, si sarebbe tragicamente conclusa, nel luglio del 1610, sul litorale maremmano. Un documento tanto più perentorio ed esplicito, quindi, anche per la sua rigorosa e severa essenzialità, per la sua drammatica immediatezza visiva ed espressiva, che, nel collocarsi al culmine dell'attività finale del maestro lombardo, evidenzia e sintetizza al massimo inclinazioni, scelte e qualità della sua produzione finale, a Napoli, a Malta, in Sicilia e ancora a Napoli. Gli anni più difficili, quelli vissuti dal Caravaggio dopo la precipitosa fuga da Roma a seguito dell’uccisione di Ranuccio Tomassoni al Campo Marzio, per le alterne vicende che, tra condanne e perdoni, fughe e ritorni, favori e disgrazie, lo avrebbero accompagnato fino alla morte. Ma anche gli anni durante i quali l’artista, l’uomo soprattutto, maturò, seguendo un processo già da tempo avviato, un’ancora più sofferta esperienza di vita, una più attenta e amara percezione o consapevolezza di quanto infinitamente tragica e dolorosa fosse, in ogni tempo e in ogni luogo, la condizione dell’uomo nel suo essere e nel suo divenire: con conseguenze che ne avrebbero segnato profondamente l’intera produzione finale. A Napoli, nell’antica, popolosa e caotica capitale del viceregno spagnolo in Italia meridionale, nella città un po’ greca e un po’ latina, impregnata di tutti gli umori, i colori e i sapori del Mediterraneo, cosmopolita e già multietnica, aperta già da tempo alle esperienze e ai traffici più diversi, sia artistici sia mercantili, segnata nel profondo da insanabili contrasti e continue contraddizioni, attraversata da segni costanti di diffusa miseria e da esempi interminabili di superba e sfolgorante nobiltà, tra manifestazioni concrete di religiosità vera e di inguaribile superstizione, il pittore lombardo ebbe modo di percepire con gli occhi, col cuore e con la mente, come forse neppure a Roma gli era stato concesso, a quali vertici di desolante emarginazione, di irreversibile dolore, di esasperante solitudine, la condizione dell’uomo potesse essere sollecitata e sospinta dal lento ma lacerante trascorrere del vivere quotidiano. Ma, al tempo stesso, come proprio da questa condizione di infinite e strazianti miserie potessero emergere, in particolare tra i più umili e i più emarginati, tra i disadattati e i diseredati, tra la gente dei vicoli più bui e maleodoranti, i «bassi» più foschi e le taverne più losche, esempi inimmaginabili di umanità vera, sincera e comunicativa, di tenace e rassicurante solidarietà, di forza morale e altissima dignità, anche a fronte delle più disperanti esperienze imposte dalla realtà circostante. È la Napoli d’inizio Seicento, è la stessa gente che Caravaggio, appena arrivato in città, ha incontrato nelle stradine strette e pullulanti di vita dei quartieri spagnoli o dei dintorni della Vicaria e che perentoriamente ha trasferito sulla grande tela per i governatori del Pio Monte della Misericordia, facendo emergere dall’ombra densa della notte, alla luce di qualche torcia e bloccati per l'eternità, brani o frammenti di realtà quotidiana: nobili di «cappa e spada», un pezzente avvolto in pochi stracci, un oste pingue e godereccio, un misero barbone assetato di vino, una fanciulla intenta a offrire quasi di nascosto il suo prospero seno a un vecchio avido e affamato, sotto l'agitarsi al vento di lenzuola stese ad asciugare dietro le quali s'affaccia, tra giovanotti arditi e spericolati, una giovane mamma col figlioletto al collo, mentre più in là, dietro l’angolo, s’intravede l’eterna presenza della morte e della fine di ogni umana passione. (...) Un percorso d’arte e di vita che di lì a poco lo avrebbe spinto a chiudere e bloccare per sempre, nel breve spazio concesso alla Sant’Orsola confitta dal tiranno e a pochi giorni dalla immatura scomparsa, la sua angosciata percezione o visione della vita e della morte, del tragico legame tra umano e divino, tra reale e sovrannaturale, tra essere e divenire.

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