L'altra guerra in Iraq "Ci rubano la storia". I siti delle città sumere devastati dai ladri. E dalle basi americane

L'altra guerra in Iraq "Ci rubano la storia". I siti delle città sumere devastati dai ladri. E dalle basi americane
Giordano Stabile
LA STAMPA, 20-09-2007

Disperati appelli degli archeologi «Danni incalcolabili»

“E la fine della storia», ha titolato il quotidiano inglese The Independent citando la sconsolata archeologa libanese Joanne Farchakh. Fine della storia, ma non nel senso di Fujimori e nella sperata cessazione di tutti i conflitti per l'umanità. Quello che sta finendo in Iraq sono le basi materiali della storia, le testimonianze delle antiche civiltà, le prime società urbane comparse sulla Terra, assieme alla matematica, l'astronomia, la scrittura.
Dal 2003, impunemente, venti chilometri quadrati di antichissimi insediamenti urbani sono stati scavati dai ladri, distruggendo tutto tranne i gioielli e gli altri oggetti facilmente vendibili sul mercato dei collezionisti di reperti archeologici. «Non un metro di queste capitali sumere, che giacevano sotto la sabbia da più di quattromila anni, è stato risparmiato», contabilizza Farchakh, che nel 2003 fece da consulente nelle ricerche sugli oggetti depredati dal Museo Archeologico di Baghdad, subito dopo la caduta di Saddam Hussein.
Poca roba, rispetto a quello che è successo nei quattro anni seguenti. «Ci sono l0mila siti archeologici in questo paese. Solo nella provincia di Nassiriya ci sono 840 siti sumeri. Alessandro Magno poteva magari distruggere una città, ma poi ne costruiva una nuova. Ora i ladri stanno spianando tutto fino alle fondamenta che posano sulla roccia: sono organizzati sempre meglio, hanno soldi, finanziatori, sembrano cercare su commissione».
Si dice che l'Iraq abbia due immensi giacimenti: quelli di petrolio (le seconde riserve accertate al mondo, dopo l'Arabia Saudita) e quelli archeologici. L'interesse delle potenze occidentali per quella che fu la «culla della civiltà», assieme all'Egitto, è andata di pari passo con l'interesse per questi giacimenti. I primi ad arrivare furono gli inglesi, che vedevano nel paese tra i due fiumi, allora provincia dell'Impero ottomano, una ghiotta scorciatoia tra l'India e la madrepatria, da presidiare attentamente.
Le scoperte archeologiche furono all'inizio un sottoprodotto di quella presenza, ma nel giro di pochi decenni l'Iraq divenne la più grande miniera a cielo aperto di tesori antichi. Fra il 1811 e il 1817 Claudius James Rich scopriva le rovine di Babilonia e nel 1825 il British Museum acquistava le prime celebri tavolette d'argilla scritte in caratteri cuneiformi. I primi scavi furono però condotti dal francese Paul Emile Botta nel 1842, il quale ritrovò il Palazzo del Re Sargon (710 avanti Cristo) con i mastodontici tori alati dalle teste barbute, che finirono al Louvre di Parigi.
Alla fine dell'Ottocento Hormurd Rassam scoprì la Biblioteca del Re Assurbanipal a Ninive, composta da centinaia e centinaia di tavolette di argilla, decifrate da George Smith, su alcune delle quali era riportata l'Epopea di Gilgamesh, scritta prima di Omero e della Bibbia. Tutto questo ben di Dio è oggi conservato nel British Museum di Londra. Era una corsa all'Iraq, un po' come quella, contemporanea, all'Africa. Solo che qui, oltre al fucile, c'erano anche piccone, cazzuola e scopino.
I tedeschi, organizzati in maniera mirabile nella Società orientale germanica, scoprirono nel 1899 a Babilonia la Porta di Ishtar, la strada delle Processioni, le mura di cinta difese da trecento torri. La Porta di Ishtar con le sue murature in mattoni invetriati, decorati da oltre cento leoni e tori smaltati, negli splendidi colori azzurro e giallo, è la principale attrazione del Museo archeologico di Berlino, un'attrazione che da sola vale il viaggio.
La tremenda depredazione coloniale ha avuto almeno il merito di conservare le incredibili testimonianze delle civiltà babilonese e sumera e portarle a due passi da casa nostra. La depredazione neo-coloniale è invece indirizzata soltanto a case private. Una tavoletta cuneiforme sumera viene pagata sul posto 50 dollari e può valere sul mercato clandestino in Occidente fino a mille volte tanto, per un collezionista esperto e accanito. E il rischio di essere scoperti è pari a zero.
In Iraq il rischio semmai è per chi cerca di fermare il trafugatori. La polizia irachena si è scontrata con una rete ben organizzata e spietata, che si appoggia su solide basi tribali. Nel 2005 agenti della dogana irachena arrestarono una banda nella città di Al Fajir, vicino a Nassiriya. Centinaia di reperti vennero recuperati e subito spediti al Museo archeologico di Baghdad con un convoglio. A poche decine di chilometri dalla capitale le auto furono bloccate, otto agenti uccisi, i corpi bruciati e lasciati nel deserto come monito alle forze dell'ordine.
Le truppe della coalizione non sono quasi mai intervenute. E se sì, hanno fatto più danni che altro. La base costruita dagli americani nell'antica Babilonia, messa lì ufficialmente «per proteggere il sito», si è rivelata un disastro. Il passaggio dei mezzi pesanti e delle jeep blindate ha sbriciolato i muri di mattoni a secco. «È stato come sottoporli a un continuo terremoto», commenta l'archeologo Zainab Bahrani. «I danni sono estesi e irreparabili. Se davvero gli americani volevano proteggerla, sarebbe stato più sensato piazzare guardie attorno al sito, non costruirci sopra il più grande quartier generale della coalizione».
E non ci sono soltanto quelli che noi verrebbero chiamati «tombaroli». I contadini iracheni vedono nei siti, scrive ancora Joanne Farchakh, «un campo che produce terracotte antiche». Non si può chiedere a quella popolazione poverissima di avere una sensibilità per i beni archeologici che a stento si trova nella ricca Europa. «Un sigillo, una scultura, una tavoletta possono valere la metà di quanto guadagna in un mese un impiegato statale. Gli scavi illegali sono per loro una parte di una normale giornata di lavoro».
Una soluzione potrebbe essere quella praticata dall'archeologo italiano Giovanni Pettinato, uno dei più ....

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