Carpaccio, uno psicoanalista a colori

l’Unità 17.4.08
Carpaccio, uno psicoanalista a colori
di Gaspare Polizzi

UN GRANDE INTELLETTUALE ci racconta il viaggio interiore intrapreso contemplando i nove quadri della Leggenda aurea di Jacopo da Varagine dipinta dall’artista nella cappella degli Schiavoni a Venezia

Michel Serres, accademico di Francia, professore alla Stanford University, è uno tra i principali pensatori del nostro tempo. Il suo percorso di ricerca, condensato in 44 volumi, si è avviato nel 1969, con un ambizioso progetto di filosofia della comunicazione, verso un «passaggio di Nord-Ovest» (felice metafora che indica il difficile e tortuoso passaggio dalle scienze naturali alle scienze umane). La sua opera fa perno sulla considerazione dell’avvenuta svolta epocale che dal mondo della produzione e dell’industrialismo (o di Prometeo) ha condotto a quello della comunicazione e dei messaggi (o di Ermes). Serres mira a costruire una nuova cultura della comunicazione e dello scambio che unisca insieme le scienze, le arti, le leggi e le religioni in una «nuova alleanza» e in un nuovo «patto naturale e morale» tra uomini e natura; una cultura in armonia con i nostri saperi, un «nuovo umanesimo» che acceda all’universale.
L’ultimo suo libro - Carpaccio les esclaves libérés («Carpaccio gli schiavi liberati»), Le Pommier, Paris 2007 - torna su un autore e su un motivo coltivati fin dal 1975 (Esthétiques. Sur Carpaccio, Paris, Hermann, 1975; tradotto in italiano da Hopeful Monster, Firenze, nel 1990), ripercorrendo in chiave antropologica, culturale ed evolutiva la leggenda «aperta» depositata nei nove quadri della Cappella veneziana degli Schiavoni, che Carpaccio lesse dalla Leggenda aurea di Jacopo da Varagine. Gli abbiamo posto qualche domanda su questa sua ultima opera.
Più di trent’anni fa avete scritto un libro intrigante a partire da Carpaccio: «Esthétiques. Sur Carpaccio», «un viaggio nell’alfabeto delle forme e del cromatismo», nel quale c’era molta geometria, c’era molta attenzione alle strutture dello spazio e dei colori. Come mai un nuovo Carpaccio?
«Le mie Esthétiques sur Carpaccio descrivevano soltanto alcuni quadri della Cappella degli Schiavoni di Venezia, senza tener conto della loro connessione. Ritornato sul posto, ho avuto l’intuizione che la serie raccontasse una o più storie: non soltanto il triplo ciclo dei santi dalmati, Giorgio, Trifone e Gerolamo, ai quali era devota la confraternita lì riunita, ma un gesto completo di iniziazioni, di conversioni, forse personali, senza dubbio collettive, ancora più profonde, credo; in ogni caso, dei racconti, che ho cercato di riproporre».
Inizia così il suo itinerario intorno ai nove splendidi «teleri» del ciclo di Carpaccio. Ma perché «Schiavi liberati»?
«I quadri della Scuola degli Schiavoni raccontano - non l’avevo compreso finora - come si trasformano la spada in spina, l’odio in sofferenza, la paura in dolore, la lotta in malattia, la vittoria o la disfatta, equivalenti, in terapia e guarigione: la schiavitù in libertà».
Scrive anche che questa sua nuova visita alla Cappella degli Schiavoni è stata una forma di «psicoterapia».
«È ciò che propongo nella mia penultima visita. Per me il Carpaccio psicopompo annuncia anche la mia verità. Chi sono io? I clamori del collettivo, lo spettacolo e la battaglia. Non sono io, ma innanzitutto soltanto noi, e in più il teatro terrificante che appiccica questo collettivo alla mia carne, dove esso urla e mi comanda, spingendo la mia vanità verso l’eroismo del combattimento. Chi sono, ancora una volta? L’aggressività che lotta e critica, in nome delle polemiche pubbliche. Chi sono, di nuovo? L’approvazione del gruppo, quando, trionfale, espello il mostro. Il noi sacrificale mi applaude, non da successo che allo spettacolo del male. Ecco, dipinta alla perfezione, una malattia mentale ordinaria, nevrosi, ossessione o altro».
Ancora una volta, dunque un’autobiografia, insieme privata e collettiva. Ma come è possibile vedervi una deriva verso la dolcezza, come concepire il bene in un mondo dominato dalla lotta e dal conflitto?
«Chi sono io, infine? L’autore autentico delle mie Confessioni, talvolta riconosciute, come in questo caso, in immagini; un individuo autonomo, in riposo e in estasi. Scrivere questo libro mi ci conduce. A leggerlo, conduce anche voi. Gioia, pianti di gioia. La genesi del cristianesimo, quella della modernità, la via verso l’umanizzazione, la deriva verso la dolcezza… queste liberazioni si chiamano anche e in definitiva: guarigione. Beati gli uomini dolci.
Come il male si può definire come la dura lotta del bene contro il male, così il bene, dolce e mitigato, nasce dall’incontro dei due assi; sì, il bene mescola il bene e il male. Come il male si misura dalla distanza della battaglia, così il bene nasce nelle vicinanze e nelle prossimità. Il precetto di amare il prossimo non significa soltanto prediligere colui o colei che vive al nostro fianco, ma praticare l’atto stesso di avvicinarglisi».
Nel famoso quadro di «San Giorgio e il drago» non si legge allora soltanto la violenza dello scontro frontale, l’uccisione del nemico diabolico, ma anche la rappresentazione della società tripartita…
«La picca di San Giorgio si radica nei muscoli e nei tendini incrociati, ai piedi della bestia. Gerolamo tocca con la mano l’unghia che gli fa male, sotto la quale o al posto della quale giace la spina che la ferisce. La bontà inventa di andare a sfregare quell’estremità, dove l’unghia e la spina sono vicine, senza sapere ancora se si tratta dell’una o dell’altra. Ecco che emergono delle cose straordinarie: avvicinandosi, questa bontà si espone, prima di tutto, essa stessa al male; in secondo luogo, si prende cura del male, ma, infine e soprattutto, inventa il nuovo. Essa inventa nel massima vicinanza con il male, con il pericolo mortale, con la battaglia, con la stessa uccisione. Niente scopritori senza l’affrontare il peggior pericolo. La vera morale possiede il vero coraggio di inventare veramente. Ritroviamo, nella vicinanza stessa del male, Caino l’inventore?
E più in generale, San Giorgio, santo, guerriero e contadino (il suo nome rinvia all’agricoltura, alle Georgiche) personifica la vecchia tripartizione delle società indoeuropee (Giove, Marte e Quirino, secondo Georges Dumézil), oggi cancellata dalle nuove trasformazioni umane e sociali. Se guardiamo la sequenza dei quadri degli Schiavoni troviamo il superamento della tripartizione originaria delle nostre società. La filosofia deve pensare la nuova ominizzazione, oltre la violenza del guerriero».
Un’ultima domanda. Questo libro, come il precedente - «L’Art des Ponts, Homo Pontifex» (Le Pommier, 2006) testimonia l’efficacia e la bellezza della sua nuova tensione verso il pensiero visivo, espresso a partire dal 1999 con la rappresentazione delle variazioni dei corpi («Variations sur le corps») e dei paesaggi delle scienze («Paysages des Sciences, ouvrage collectif sous la direction» de M. Serres et N.Farouki) entrambi editi da Le Pommier-Fayard nel 1999. Nell’ultima pagina di questo libro la sinestesia si arricchisce con uno «strano» messaggio musicale.
«Ho voluto scrivere una nota per un ipotetico compositore che volesse mettere in musica il mio libro: “Sebbene quasi in preghiera tra il mutismo tranquillo delle forme, delle tinte e della cappella, voi credete tuttavia di udire nel primo atto in cui la battaglia fa irrompe furibonda nella campagna, il clicchettio della spada, le grida di coraggio nel combattimento, lo scatto corazzato della lancia il cui acciaio si affonda nella dentatura del dragone, il lamento agonizzante del vinto, le urla di terrore e di ammirazione della folla, il cui rumore riempie il volume dello spazio… in breve il caos ventoso dei clamori”. All’inizio di questo racconto, il quadro, all’estrema sinistra, si riempie dell’angoscia dei duellanti e delle acclamazioni multiple del pubblico; si direbbe che esse s’involvono nella coda arrotolata, turbinosa, della bestia, dove si accumulano i muti crani calcarei che, cadendo, continuano a urtarsi.
Ora, alla fine dei nove quadri, all’estrema destra, in basso nella tavola orizzontale, tra il silenzio della camera e l’estasi di Agostino, si stendono due spartiti musicali, a pagine aperte, pronti per la salmodia.
Dal duro verso il dolce: dalla confusione del conflitto al silenzio del lamento meditativo; dallo strepito disordinato della violenza alle alte note gialle del lamento-canto; dall’orrendo rumore di fondo che fanno i corpi, le anime e i gruppi infuriati alla sorgente silenziosa della musica, pienezza e inizio divini di ogni linguaggio e di ogni arte.
Che lo dica il cristianesimo, l’ominizzazione, la storia, la politica o la vita personale… un racconto va dal caos verso una sorta di ordine, dalla violenza verso un acquietamento, dalla lacerazione alla sua cicatrice, insomma, dal rumore di fondo verso la musica.
O inversamente. Uscendo dagli Schiavoni, ci coglie l’assordimento insensato della civilizzazione».

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