«Quelle parole non furono scritte dal geografo di Efeso Ecco perché la filologia classica smentisce la chimica»
Corriere della Sera 20.3.08
Canfora confuta le tesi dell'edizione critica del papiro
Dietro la maschera di Artemidoro
«Quelle parole non furono scritte dal geografo di Efeso Ecco perché la filologia classica smentisce la chimica»
di Luciano Canfora
Finita la festa di Berlino, esauritosi il monologo, si impone un bilancio. La constatazione più immediata è che la gran parte dei dati di fatto presentati, tre mesi or sono, nel volume laterziano Il papiro di Artemidoro è rimasta senza risposta. Essi riguardano anacronismi, errori geografici, lingua tardiva.
Ma innanzitutto riveliamo al lettore la vera novità di Berlino, prontamente travasata nelle colonne del Sole 24 ore, che rischia di essere soverchiata dal chiasso. Il reperto di partenza ha cambiato natura. Era una maschera funeraria di cartapesta, ora non lo è più! Due anni fa, alla mostra di Palazzo Bricherasio a Torino, ricca e documentata, non c'era nessuna foto dell'oggetto- matrice, allora definito «maschera», da cui l'Artemidoro sarebbe scaturito. E nemmeno dieci anni fa, nell'importante saggio-annuncio, con parziale edizione, dell'Artemidoro ( Archiv 1998) ve n'era traccia. Perciò avevamo previsto che, dati i crescenti dubbi sull'autenticità del papiro, alla fine, una qualche foto di una qualche cosa sarebbe venuta fuori ( Papiro di Artemidoro, p. 18). Ma cosa? Di maschera aveva reiteratamente parlato uno studioso prudente quale il Settis e con insistenza una maschera ostentava il filmato che accompagnava ininterrottamente i visitatori del Palazzo Bricherasio. Nel manifesto dell'8 febbraio 2006 un «esperto» parlò di «ammasso di cartapesta da un cartonnage di mummia». Quattro giorni prima, su Repubblica, Settis parlò di «maschera di mummia in cartonnage». E nel catalogo Tre vite un intero capitolo fu dedicato a spiegare cosa fosse un cartonnage. Fu reiteratamente proclamato che proprietario della maschera era stato il discusso collezionista tardo-ottocentesco Kashaba Pasha, di cui il Metropolitan Museum possiede un manipolo di maschere ben protette. Ora le parole maschera e cartonnage sono scomparse (edizione Led, p. 60), ed è nato il Konvolut, che un tempo era detto Konglomerat. La colla viene quasi del tutto estromessa, si parla di «qualche punto tenuto fermo con un poco di colla». Tutto si basa sulla postuma foto sfoderata per l'occasione berlinese dal venditore e l'oggetto raffigurato viene descritto così: «imbottitura di una cavità non meglio precisabile, ovvero struttura portante di qualche supporto di natura indefinita». Sic. Ad ogni modo l'inelegante gesto tardivo che avevamo previsto è stato compiuto. Potenza dell'arte fotografica. Ma la postuma foto, definita comicamente «prova schiacciante», apre ulteriori problemi anziché risolverne. «Purtroppo — viene ora asserito — l'unica riproduzione disponibile del Konvolut lo mostra già parzialmente smontato, e non consente di avere indicazioni precise né sulla parte più esterna di esso, né sulla forma che presentava quando era intatto». In pratica, quell'oggetto non l'ha visto nessuno e la foto unica disponibile è tale da suggerire qualunque ipotesi. Tra l'altro ci si chiederà: ma allora qual mai oggetto conservava Kashaba nella sua collezione? Una cavità imprecisata? E se la maschera esce di scena, sotto che forma sarebbe a suo tempo fuoruscito dall'Egitto l'ineffabile oggetto? E chi ha tirato fuori la storiella della maschera? Si voleva mascherare una esportazione illegale? Aveva proprio ragione il saggio e dotto Peter Parsons ( Times Literary Supplement dello scorso 22 febbraio) nel collegare reticenza su questo punto e «skulduggery» («loschezza»)... Come poi potesse un oggetto alto 33 centimetri e largo 11 contenere 3 metri di papiro artemidorico più venticinque documenti (il dono del venditore all'Università di Milano) resta un mistero. Ma forse è quasi spietato continuare a porre domande ad una fotografia postuma.
Capiamo bene che lo sfoderamento obtorto collo della foto e la conseguente liquidazione della teoria-maschera hanno come obiettivo di aggredire l'ipotesi che l'Artemidoro sia opera di un falsario. Il ragionamento, deboluccio, è che un falsario non avrebbe fatto a pezzi il suo prodotto per mascherarlo in un ammasso di cartapesta. Leggemmo già questo pensiero su la Repubblica nel lontano 16 settembre 2006, e la scarsa logica del ragionamento non cessa di stupirci. Chi sa perché solo il falsario avrebbe dovuto o potuto fare ciò.
Avevamo previsto che si sarebbe sprigionato uno scintillio di analisi chimiche e di carbonio 14. È quanto è avvenuto a Berlino nei giorni scorsi, dove per fortuna qualche voce prudente ha ricordato agli astanti i margini di errore. Poiché però nella credenza popolare il ricorso alle scienze «dure» come ancelle delle scienze «molli» ha un certo effetto, conviene qui ripetere: 1) ovviamente la datazione con C14 è stata effettuata sul supporto papiraceo, non sull'inchiostro; 2) dell'inchiostro — come era da aspettarsi — ci vien detto che i materiali costitutivi sono quelli propri degli inchiostri antichi (edizione critica Led, pp. 66-77); 3) le ricette degli inchiostri antichi si trovano, a portata di chiunque, in Plinio e in Vitruvio, nonché (un esempio tra tanti) nella gloriosa e diffusissima «Encyclopédie méthodique »; 4) i falsari capaci si servono di supporti papiracei antichi. È inutile sfondare coi carri armati una porta spalancata.
Avevamo previsto che dei due ben differenti problemi — carattere tardivo del testo e ricerca del vero autore — sarebbe stato affrontato piuttosto il secondo che il primo. Ed è andata puntualmente così.
E veniamo perciò alle questioni lasciate senza risposta. Abbiamo dimostrato che la colonna IV del papiro (righi 1-24) è un collage di testi tardivi: due provengono da due differenti opere di Marciano (IV d. C.), un paio di righi riprendono una forma di Tolomeo e dello stesso Marciano, e per colmo di sventura viene accolto anche un errore di calcolo dovuto a Tolomeo (pp. 289-306 = Led, p. 222). La deduzione è palmare: come può uno scritto sorto comunque dopo il IV d. C. trovarsi su di un supporto del I secolo avanti o dopo Cristo, a piacere? Può aver fatto ciò soltanto un falsario. Ma anche se credessimo nei miracoli o in una lunga catena di coincidenze fortuite, resterebbe comunque insormontabile l'assurda affermazione del papiro, secondo cui intorno al 100 a. C. (allorché Artemidoro visitò l'Occidente) la provincia romana della Hispania Ulterior avrebbe incluso «la Lusitania tutta». Insormontabile non solo per l'errore in sé, visto che si tratta, com'è ovvio, della Lusitania «in accezione meramente geografica» (Led, p. 220), ma soprattutto perché il frammento 21 di Artemidoro- Marciano dice il contrario: che cioè la Ulterior giungeva allora «fino alla Lusitania». Inutile cavarsela dicendo che all'epoca i confini erano poco chiari (chi sa perché). Il problema è che Marciano lì sta ricopiando proprio il brano artemidoreo che ci illudiamo di trovare nel papiro: il che dimostra che l'Artemidoro che lui leggeva diceva esattamente il contrario di ciò che troviamo nel papiro.
Altra questione: lo sconclusionato testo proemiale delle colonne I e II. Fantastico l'esordio. «Colui che si accinge ad un'opera geografica (era esatta la traduzione figurante nel catalogo, errata quella Led, p. 196) deve fornire un'esposizione completa della propria scienza dopo avere in precedenza soppesato (ovvero, plasmato: a piacer vostro) l'anima con volontà protesa alla vittoria». Ripetiamo per l'ennesima volta che questo (beninteso ad assumerlo per autentico) non potrebbe che essere l'esordio generale, l'avvio del libro I, strambamente però piazzato in testa al libro II (Spagna). Vana la riluttanza a prenderne atto (Led, p. 108). Che razza mai di rotolo era questo? Non leggiamo oltre. L'addensarsi massiccio, in così breve spazio, di espressioni e lessico tardo-antichi e bizantini non fu che l'inizio. Poi ci si parò dinanzi la cascata degli anacronismi, errori geografici etc...
Per difendere l'indifendibile impasto del divagante proemio, ci viene ora citato un caso: «l'aggettivo alitemeros, noto solo dall'Etimologico Magno è inaspettatamente riemerso nel 1972 in un papiro di Colonia che contiene versi di Archiloco» ( Il Sole di domenica scorsa, p. 48 = Led, p. 57). Viene però sottaciuto che l'Etimologico mette quel termine in relazione con un passo di Callimaco, e nessuno si stupirebbe di trovare in Callimaco una parola già adoperata da Archiloco. L'Etimologico non è che un vocabolario: un verso di Dante citato nel dizionario del Battaglia non per questo diventa del XX secolo. Aggiungiamo poi che alitemeros è già in Esichio e inoltre è stato agevolmente ripristinato in Esiodo, Scudo 91. Insomma, il parallelo è inconsistente, o meglio inesistente, a fronte delle moltissime espressioni cavate dai Typikà di conventi dell'Athos o da Manuele Gabalas o anche da Matteo di Efeso o anche dai Basilici e da Giovanni Cinnamo (se proprio si preferisce plasteusanta al ben più probabile talanteusanta del r. 3). Il ricorso all'«asianesimo» non serve.
Un argomento già ben noto, che campeggiava nel mitico catalogo Tre vite, suonava così: nel papiro figurano due toponimi, Ipsa e Cilibe, «che finora conoscevamo solo da monete» (p. 91). Nel Papiro di Artemidoro (pp. 313-314) abbiamo agevolmente dimostrato che i Cilibitani ci sono già in Plinio, per giunta nella stessa pagina in cui figurano altri toponimi che ritroviamo nel papiro, e inoltre in Rufo Festo Avieno. Cilibe è uscita di scena (Led, p. 256), ed ora è rimasta soltanto Ipsa (Led, p. 58 = Sole, p. 48). Ma il bello è che avevamo anche chiarito che il toponimo attestato da monete non è Ipsa, ma l'iberico Ipses (dunque un altro) e trovasi da tutt'altra parte. Raccomanderei di cercare ancora in Plinio... Non giova tagliar corto con un perentorio «Ipsa dixit». In tutta questa devozione per Ipsa non si è fatto caso ad un fenomeno macroscopico: ne tacciono, pur nell'ambito di analitiche rassegne della Betica, Strabone, Plinio, Tolomeo (dalle straripanti liste) e addirittura Marciano (utilizzato a corrente alternata). E invece il toponimo inaudito sbucherebbe fuori nell'ultra-selettivo periplo del cosiddetto Artemidoro, dove però mancano numerosi importanti toponimi costieri della Spagna (Hemeroskopeion, Abdera, Malake) che invece dai frammenti del vero Artemidoro sappiamo figurare nel libro II.
Caduto tutto il resto, ci si appella al «sampi con un'unità sovrapposta in funzione di esponente » (Led, p. 58 = Sole p. 48), peraltro «mai affermatosi nella tradizione grafica greco-egizia », tanto da indurre i nostri alla fantasiosa ipotesi di un modello in viaggio dalla Ionia (Led, p. 92). Avevamo già dato qualche informazione al riguardo (pp. 310-311). Altre daremo in un imminente volume. Qui ci basti far notare che quel segno era conosciuto già dalle epigrafi della Caria, studiate fin dalla metà dell'Ottocento (quelle di Cnido dal 1863). Non nasconderemo al lettore che dell'alfabeto cario, di cui quel segno è la trentaduesima lettera, il poliedrico Simonidis fu cultore virtuoso: tanto da scrivere un'intera, falsa, pergamena di Aristotele tutta in alfabeto cario.
Ma forse è giunto il momento di ribadire per l'ennesima volta che le questioni sono due e ben distinte: a) il cosiddetto Artemidoro non può essere tale perché incorpora testi di molto successivi, b) se però il papiro che lo tramanda si colloca davvero, e non stentiamo a crederlo, tra 40 a. C. e 130 d. C., allora, purtroppo, è opera di un moderno. Ovviamente potrebbe essere «salvato» se un'altra provvidenziale analisi al carbonio venisse in soccorso, e collocasse il supporto — che dire — tra Diocleziano e Giustiniano, oppure tra Giustiniano e Manuele Gabalas, oppure tra Gabalas e Meletios. Non si sa mai. La scrittura non costituirà impedimento. L'accostamento, riproposto da ultimo più vigorosamente di dieci anni fa, col cosiddetto papiro di Cleopatra, è talmente inconsistente che può essere agevolmente accantonato. E si offre invece una ghiotta possibilità: quella dei papiri ercolanesi, accostamento che non era sfuggito, anzi era cautamente prospettato nell'Archiv del 1998. Certo, sarebbe un po' curioso ritrovare in Egitto scritture di tipo ercolanese, ma, com'è noto, per fortuna, nel XVIII secolo e al principio del XIX i papiri di Ercolano furono ricopiati, disegnati, in album di facile accesso (disegni che, sia detto a onor del vero, Simonidis conosceva benissimo).
Dicono che, dopo la sosta berlinese, il papiro passerà a Monaco. Non sappiamo se sia intenzionale questo ripercorrere le tappe del viaggio, non proprio trionfale, che portò Simonidis a rifugiarsi a Monaco dopo la fuga da Berlino a seguito dello smascheramento dell'Uranios. Dalla capitale dell'allora regno di Baviera, egli lanciò una sfida ai suoi critici con un pugnace libretto intitolato Sull'autenticità di Uranios.
Chi sa se, alla mostra monacense del prossimo luglio, non si accompagnerà un nuovo pugnace opuscoletto intitolato Sull'autenticità di Artemidoro. Resta la domanda se, una volta finite queste peregrinazioni nei luoghi simonidei, toccherà anche all'Artemidoro, come al buon Simonidis, di finire i suoi giorni in Egitto.
Canfora confuta le tesi dell'edizione critica del papiro
Dietro la maschera di Artemidoro
«Quelle parole non furono scritte dal geografo di Efeso Ecco perché la filologia classica smentisce la chimica»
di Luciano Canfora
Finita la festa di Berlino, esauritosi il monologo, si impone un bilancio. La constatazione più immediata è che la gran parte dei dati di fatto presentati, tre mesi or sono, nel volume laterziano Il papiro di Artemidoro è rimasta senza risposta. Essi riguardano anacronismi, errori geografici, lingua tardiva.
Ma innanzitutto riveliamo al lettore la vera novità di Berlino, prontamente travasata nelle colonne del Sole 24 ore, che rischia di essere soverchiata dal chiasso. Il reperto di partenza ha cambiato natura. Era una maschera funeraria di cartapesta, ora non lo è più! Due anni fa, alla mostra di Palazzo Bricherasio a Torino, ricca e documentata, non c'era nessuna foto dell'oggetto- matrice, allora definito «maschera», da cui l'Artemidoro sarebbe scaturito. E nemmeno dieci anni fa, nell'importante saggio-annuncio, con parziale edizione, dell'Artemidoro ( Archiv 1998) ve n'era traccia. Perciò avevamo previsto che, dati i crescenti dubbi sull'autenticità del papiro, alla fine, una qualche foto di una qualche cosa sarebbe venuta fuori ( Papiro di Artemidoro, p. 18). Ma cosa? Di maschera aveva reiteratamente parlato uno studioso prudente quale il Settis e con insistenza una maschera ostentava il filmato che accompagnava ininterrottamente i visitatori del Palazzo Bricherasio. Nel manifesto dell'8 febbraio 2006 un «esperto» parlò di «ammasso di cartapesta da un cartonnage di mummia». Quattro giorni prima, su Repubblica, Settis parlò di «maschera di mummia in cartonnage». E nel catalogo Tre vite un intero capitolo fu dedicato a spiegare cosa fosse un cartonnage. Fu reiteratamente proclamato che proprietario della maschera era stato il discusso collezionista tardo-ottocentesco Kashaba Pasha, di cui il Metropolitan Museum possiede un manipolo di maschere ben protette. Ora le parole maschera e cartonnage sono scomparse (edizione Led, p. 60), ed è nato il Konvolut, che un tempo era detto Konglomerat. La colla viene quasi del tutto estromessa, si parla di «qualche punto tenuto fermo con un poco di colla». Tutto si basa sulla postuma foto sfoderata per l'occasione berlinese dal venditore e l'oggetto raffigurato viene descritto così: «imbottitura di una cavità non meglio precisabile, ovvero struttura portante di qualche supporto di natura indefinita». Sic. Ad ogni modo l'inelegante gesto tardivo che avevamo previsto è stato compiuto. Potenza dell'arte fotografica. Ma la postuma foto, definita comicamente «prova schiacciante», apre ulteriori problemi anziché risolverne. «Purtroppo — viene ora asserito — l'unica riproduzione disponibile del Konvolut lo mostra già parzialmente smontato, e non consente di avere indicazioni precise né sulla parte più esterna di esso, né sulla forma che presentava quando era intatto». In pratica, quell'oggetto non l'ha visto nessuno e la foto unica disponibile è tale da suggerire qualunque ipotesi. Tra l'altro ci si chiederà: ma allora qual mai oggetto conservava Kashaba nella sua collezione? Una cavità imprecisata? E se la maschera esce di scena, sotto che forma sarebbe a suo tempo fuoruscito dall'Egitto l'ineffabile oggetto? E chi ha tirato fuori la storiella della maschera? Si voleva mascherare una esportazione illegale? Aveva proprio ragione il saggio e dotto Peter Parsons ( Times Literary Supplement dello scorso 22 febbraio) nel collegare reticenza su questo punto e «skulduggery» («loschezza»)... Come poi potesse un oggetto alto 33 centimetri e largo 11 contenere 3 metri di papiro artemidorico più venticinque documenti (il dono del venditore all'Università di Milano) resta un mistero. Ma forse è quasi spietato continuare a porre domande ad una fotografia postuma.
Capiamo bene che lo sfoderamento obtorto collo della foto e la conseguente liquidazione della teoria-maschera hanno come obiettivo di aggredire l'ipotesi che l'Artemidoro sia opera di un falsario. Il ragionamento, deboluccio, è che un falsario non avrebbe fatto a pezzi il suo prodotto per mascherarlo in un ammasso di cartapesta. Leggemmo già questo pensiero su la Repubblica nel lontano 16 settembre 2006, e la scarsa logica del ragionamento non cessa di stupirci. Chi sa perché solo il falsario avrebbe dovuto o potuto fare ciò.
Avevamo previsto che si sarebbe sprigionato uno scintillio di analisi chimiche e di carbonio 14. È quanto è avvenuto a Berlino nei giorni scorsi, dove per fortuna qualche voce prudente ha ricordato agli astanti i margini di errore. Poiché però nella credenza popolare il ricorso alle scienze «dure» come ancelle delle scienze «molli» ha un certo effetto, conviene qui ripetere: 1) ovviamente la datazione con C14 è stata effettuata sul supporto papiraceo, non sull'inchiostro; 2) dell'inchiostro — come era da aspettarsi — ci vien detto che i materiali costitutivi sono quelli propri degli inchiostri antichi (edizione critica Led, pp. 66-77); 3) le ricette degli inchiostri antichi si trovano, a portata di chiunque, in Plinio e in Vitruvio, nonché (un esempio tra tanti) nella gloriosa e diffusissima «Encyclopédie méthodique »; 4) i falsari capaci si servono di supporti papiracei antichi. È inutile sfondare coi carri armati una porta spalancata.
Avevamo previsto che dei due ben differenti problemi — carattere tardivo del testo e ricerca del vero autore — sarebbe stato affrontato piuttosto il secondo che il primo. Ed è andata puntualmente così.
E veniamo perciò alle questioni lasciate senza risposta. Abbiamo dimostrato che la colonna IV del papiro (righi 1-24) è un collage di testi tardivi: due provengono da due differenti opere di Marciano (IV d. C.), un paio di righi riprendono una forma di Tolomeo e dello stesso Marciano, e per colmo di sventura viene accolto anche un errore di calcolo dovuto a Tolomeo (pp. 289-306 = Led, p. 222). La deduzione è palmare: come può uno scritto sorto comunque dopo il IV d. C. trovarsi su di un supporto del I secolo avanti o dopo Cristo, a piacere? Può aver fatto ciò soltanto un falsario. Ma anche se credessimo nei miracoli o in una lunga catena di coincidenze fortuite, resterebbe comunque insormontabile l'assurda affermazione del papiro, secondo cui intorno al 100 a. C. (allorché Artemidoro visitò l'Occidente) la provincia romana della Hispania Ulterior avrebbe incluso «la Lusitania tutta». Insormontabile non solo per l'errore in sé, visto che si tratta, com'è ovvio, della Lusitania «in accezione meramente geografica» (Led, p. 220), ma soprattutto perché il frammento 21 di Artemidoro- Marciano dice il contrario: che cioè la Ulterior giungeva allora «fino alla Lusitania». Inutile cavarsela dicendo che all'epoca i confini erano poco chiari (chi sa perché). Il problema è che Marciano lì sta ricopiando proprio il brano artemidoreo che ci illudiamo di trovare nel papiro: il che dimostra che l'Artemidoro che lui leggeva diceva esattamente il contrario di ciò che troviamo nel papiro.
Altra questione: lo sconclusionato testo proemiale delle colonne I e II. Fantastico l'esordio. «Colui che si accinge ad un'opera geografica (era esatta la traduzione figurante nel catalogo, errata quella Led, p. 196) deve fornire un'esposizione completa della propria scienza dopo avere in precedenza soppesato (ovvero, plasmato: a piacer vostro) l'anima con volontà protesa alla vittoria». Ripetiamo per l'ennesima volta che questo (beninteso ad assumerlo per autentico) non potrebbe che essere l'esordio generale, l'avvio del libro I, strambamente però piazzato in testa al libro II (Spagna). Vana la riluttanza a prenderne atto (Led, p. 108). Che razza mai di rotolo era questo? Non leggiamo oltre. L'addensarsi massiccio, in così breve spazio, di espressioni e lessico tardo-antichi e bizantini non fu che l'inizio. Poi ci si parò dinanzi la cascata degli anacronismi, errori geografici etc...
Per difendere l'indifendibile impasto del divagante proemio, ci viene ora citato un caso: «l'aggettivo alitemeros, noto solo dall'Etimologico Magno è inaspettatamente riemerso nel 1972 in un papiro di Colonia che contiene versi di Archiloco» ( Il Sole di domenica scorsa, p. 48 = Led, p. 57). Viene però sottaciuto che l'Etimologico mette quel termine in relazione con un passo di Callimaco, e nessuno si stupirebbe di trovare in Callimaco una parola già adoperata da Archiloco. L'Etimologico non è che un vocabolario: un verso di Dante citato nel dizionario del Battaglia non per questo diventa del XX secolo. Aggiungiamo poi che alitemeros è già in Esichio e inoltre è stato agevolmente ripristinato in Esiodo, Scudo 91. Insomma, il parallelo è inconsistente, o meglio inesistente, a fronte delle moltissime espressioni cavate dai Typikà di conventi dell'Athos o da Manuele Gabalas o anche da Matteo di Efeso o anche dai Basilici e da Giovanni Cinnamo (se proprio si preferisce plasteusanta al ben più probabile talanteusanta del r. 3). Il ricorso all'«asianesimo» non serve.
Un argomento già ben noto, che campeggiava nel mitico catalogo Tre vite, suonava così: nel papiro figurano due toponimi, Ipsa e Cilibe, «che finora conoscevamo solo da monete» (p. 91). Nel Papiro di Artemidoro (pp. 313-314) abbiamo agevolmente dimostrato che i Cilibitani ci sono già in Plinio, per giunta nella stessa pagina in cui figurano altri toponimi che ritroviamo nel papiro, e inoltre in Rufo Festo Avieno. Cilibe è uscita di scena (Led, p. 256), ed ora è rimasta soltanto Ipsa (Led, p. 58 = Sole, p. 48). Ma il bello è che avevamo anche chiarito che il toponimo attestato da monete non è Ipsa, ma l'iberico Ipses (dunque un altro) e trovasi da tutt'altra parte. Raccomanderei di cercare ancora in Plinio... Non giova tagliar corto con un perentorio «Ipsa dixit». In tutta questa devozione per Ipsa non si è fatto caso ad un fenomeno macroscopico: ne tacciono, pur nell'ambito di analitiche rassegne della Betica, Strabone, Plinio, Tolomeo (dalle straripanti liste) e addirittura Marciano (utilizzato a corrente alternata). E invece il toponimo inaudito sbucherebbe fuori nell'ultra-selettivo periplo del cosiddetto Artemidoro, dove però mancano numerosi importanti toponimi costieri della Spagna (Hemeroskopeion, Abdera, Malake) che invece dai frammenti del vero Artemidoro sappiamo figurare nel libro II.
Caduto tutto il resto, ci si appella al «sampi con un'unità sovrapposta in funzione di esponente » (Led, p. 58 = Sole p. 48), peraltro «mai affermatosi nella tradizione grafica greco-egizia », tanto da indurre i nostri alla fantasiosa ipotesi di un modello in viaggio dalla Ionia (Led, p. 92). Avevamo già dato qualche informazione al riguardo (pp. 310-311). Altre daremo in un imminente volume. Qui ci basti far notare che quel segno era conosciuto già dalle epigrafi della Caria, studiate fin dalla metà dell'Ottocento (quelle di Cnido dal 1863). Non nasconderemo al lettore che dell'alfabeto cario, di cui quel segno è la trentaduesima lettera, il poliedrico Simonidis fu cultore virtuoso: tanto da scrivere un'intera, falsa, pergamena di Aristotele tutta in alfabeto cario.
Ma forse è giunto il momento di ribadire per l'ennesima volta che le questioni sono due e ben distinte: a) il cosiddetto Artemidoro non può essere tale perché incorpora testi di molto successivi, b) se però il papiro che lo tramanda si colloca davvero, e non stentiamo a crederlo, tra 40 a. C. e 130 d. C., allora, purtroppo, è opera di un moderno. Ovviamente potrebbe essere «salvato» se un'altra provvidenziale analisi al carbonio venisse in soccorso, e collocasse il supporto — che dire — tra Diocleziano e Giustiniano, oppure tra Giustiniano e Manuele Gabalas, oppure tra Gabalas e Meletios. Non si sa mai. La scrittura non costituirà impedimento. L'accostamento, riproposto da ultimo più vigorosamente di dieci anni fa, col cosiddetto papiro di Cleopatra, è talmente inconsistente che può essere agevolmente accantonato. E si offre invece una ghiotta possibilità: quella dei papiri ercolanesi, accostamento che non era sfuggito, anzi era cautamente prospettato nell'Archiv del 1998. Certo, sarebbe un po' curioso ritrovare in Egitto scritture di tipo ercolanese, ma, com'è noto, per fortuna, nel XVIII secolo e al principio del XIX i papiri di Ercolano furono ricopiati, disegnati, in album di facile accesso (disegni che, sia detto a onor del vero, Simonidis conosceva benissimo).
Dicono che, dopo la sosta berlinese, il papiro passerà a Monaco. Non sappiamo se sia intenzionale questo ripercorrere le tappe del viaggio, non proprio trionfale, che portò Simonidis a rifugiarsi a Monaco dopo la fuga da Berlino a seguito dello smascheramento dell'Uranios. Dalla capitale dell'allora regno di Baviera, egli lanciò una sfida ai suoi critici con un pugnace libretto intitolato Sull'autenticità di Uranios.
Chi sa se, alla mostra monacense del prossimo luglio, non si accompagnerà un nuovo pugnace opuscoletto intitolato Sull'autenticità di Artemidoro. Resta la domanda se, una volta finite queste peregrinazioni nei luoghi simonidei, toccherà anche all'Artemidoro, come al buon Simonidis, di finire i suoi giorni in Egitto.
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