UN FARMACO PER L’ALTRA METÀ DEL CIELO
La Nuova Sardegna 7 Giu. ’07
UN FARMACO PER L’ALTRA METÀ DEL CIELO
Medicine al femminile, oggi un incontro alla Fiera di Cagliari: parla Flavia
Franconi
CAGLIARI. «Negleted Women», intitolava il saggio di una rivista scientifica americana nel 1993. Si riferiva alla pratica comune della farmacologia di applicare alle donne i risultati ottenuti dalla sperimentazione sugli uomini. In pratica, di operare secondo una pretesa neutralità di genere che con la realtà ha sempre avuto poco a che spartire. È allora che nasce, soprattutto grazie alle lotte delle femministe americane, la farmacologia di genere. Oggi, a quindici anni di distanza, non c’è chi dubiti che anche i farmaci - meglio, le loro risposte sull’organismo - sono “sessualmente orientati” e continuare ad ignorarlo costituisce, oltre che una simulazione, una grave danno alla salute di tutti. In Europa e in Italia la questione è piuttosto recente sebbene, in questi ultimi anni, le iniziative si moltiplichino e la Sardegna si stia facendo laboratorio all’avanguardia. Ne è un esempio la tavola rotonda di oggi alle 15 alla Fiera, nell’ambito del 33º Congresso nazionale della Società Italiana di Farmacologia (si terrà sino a sabato) cui parteciperà la sottosegretaria ai diritti e alle pari opportunità Donatella Linguiti. Tra le moderatrici dell’incontro «Farmacologia di genere: dal laboratorio alla società», Flavia Franconi, docente del Dipartimento di Scienze del Farmaco dell’Università di Sassari dove è stato attivato il primo dottorato europeo di Farmacologia di genere.
- Professoressa Franconi, cosa si intende per farmacologia di genere?
«La Farmacologia di genere fa parte di una branca della medicina che studia le risposte ai farmaci in funzione del genere. Uso il termine genere piuttosto che sesso per ricomprendere anche le variazioni sociali che influenzano il sesso: il modo di rapportarsi della società verso un essere di sesso femminile varia, rispetto a quello maschile, fin dalla culla; dunque la risposta biologica varia anch’essa in funzione dell’apporto culturale che giunge dalla società in risposta all’essere maschio e femmina. Per capirci meglio, anche le mamme degli animali hanno un comportamento diverso di fronte a un figlio maschio o femmina».
- Perché è importante distinguere tra i generi?
«Innanzitutto perché le donne sono le più grandi consumatrici di farmaci. Soffrendo più di malattie dolorose, anche per via delle mestruazioni, consumano più antidolorifici; inoltre un terzo delle donne in età fertile pratica la contraccezione orale mentre il venti per cento delle donne in menopausa si sottopone alla terapia ormonale sostitutiva. Sono vere e proprie terapie i cui effetti interagiscono con quelli di altri farmaci. E anche con i rimedi botanici di cui le donne fanno largo uso. Basti pensare che l’iperico, che è il rimedio più venduto al mondo, può portare alla perdita dell’efficacia degli antifecondativi orali. Man mano che proseguiamo negli studi ci accorgiamo di quanto aumentino anche le differenze di genere e del rilievo che assume l’intero ciclo riproduttivo della donna».
- Quali sono le differenze più evidenti?
«Sono legate al metabolismo dei farmaci e dunque dipendenti dagli enzimi, più espressi nella donna rispetto all’uomo; inoltre tendenzialmente la donna metabolizza meglio degli uomini».
- Come la società influenza il comportamento farmacologico?
«Quando le donne vanno dal medico vengono loro prescritti più medicinali che agli uomini, per esempio. E ancora, il modo che la donna ha di riferire al medico è diverso da quello che usa l’uomo e da ciò seguono prescrizioni diverse.
Le donne - sempre da uno studio americano - non riescono a soggettivizzare i sintomi, dicono “sto male” e il medico ha più difficoltà a capire la sintomatologia del caso. Inoltre la donna si esprime con più emotività».
- Perché i farmaci sono meno studiati nelle donne?
«Intanto perché l’analisi di genere è costosa. Bisognerebbe non solo raddoppiare i casi, ma moltiplicarli in funzione della complessità del ciclo riproduttivo della donna e dell’età. Oggi il numero di donne reclutato nella terza fase della sperimentazione è aumentato, ma è inutile se vengono mischiate agli uomini e le statistiche non vengono redatte secondo il genere. Bisogna anche dire che le donne entrano con più difficoltà negli studi clinici, perché hanno da fare: andare tre volte al mese e farsi controllare per chi lavora, ha figli e una casa da gestire è più che difficile. L’impegno, anche secondo le direttive della Organizzazione mondiale della sanità e del Ministero della Salute, deve essere quello di trovare nella società civile il modo migliore perché le donne abbiano accesso alle miglior cure possibili».
- C’è anche una questione etica.
«Certo, se non si studiano i farmaci nella donna, è etico somministrare quei farmaci alla donna?»
- Quale metodologia si propone, allora?
«È uno dei punti di grande discussione quello delle linee guida per la sperimentazione di genere. I modelli sperimentali sono da inventare. Sono uscite però le prime linee guida da un recente incontro a Maastricht per le quali bisogna indicare se nella ricerca vengono usate cellule di maschio o di femmina e in quale fase del ciclo estrale, eventualmente, è stato fatto il trapianto.
Mentre per ciò che riguarda le donne si richiede un accurato studio del metabolismo dei farmaci nel ciclo mestruale e nelle eventuali terapie contraccettive o della menopausa».
- Ancora non abbiamo parlato di gravidanza.
«Già, il buco nero. In realtà non sono mai stati studiati i farmaci in relazione alla gravidanza che pure è momento centrale nella vita della donna e per giunta anche di frequente associato alla depressione. In linea generale è giusto evitare i farmaci, ma molte patologie come l’ipertensione o la depressione non lo consentono. Purtroppo oggi si va un po’ alla cieca e non è giusto. Ogni farmaco in gravidanza è una storia a sé per le enormi trasformazioni del corpo della donna e gli effetti sul nascituro. La verità è che curando meglio le donne si curano meglio tutti quanti».
Giulia Clarkson
UN FARMACO PER L’ALTRA METÀ DEL CIELO
Medicine al femminile, oggi un incontro alla Fiera di Cagliari: parla Flavia
Franconi
CAGLIARI. «Negleted Women», intitolava il saggio di una rivista scientifica americana nel 1993. Si riferiva alla pratica comune della farmacologia di applicare alle donne i risultati ottenuti dalla sperimentazione sugli uomini. In pratica, di operare secondo una pretesa neutralità di genere che con la realtà ha sempre avuto poco a che spartire. È allora che nasce, soprattutto grazie alle lotte delle femministe americane, la farmacologia di genere. Oggi, a quindici anni di distanza, non c’è chi dubiti che anche i farmaci - meglio, le loro risposte sull’organismo - sono “sessualmente orientati” e continuare ad ignorarlo costituisce, oltre che una simulazione, una grave danno alla salute di tutti. In Europa e in Italia la questione è piuttosto recente sebbene, in questi ultimi anni, le iniziative si moltiplichino e la Sardegna si stia facendo laboratorio all’avanguardia. Ne è un esempio la tavola rotonda di oggi alle 15 alla Fiera, nell’ambito del 33º Congresso nazionale della Società Italiana di Farmacologia (si terrà sino a sabato) cui parteciperà la sottosegretaria ai diritti e alle pari opportunità Donatella Linguiti. Tra le moderatrici dell’incontro «Farmacologia di genere: dal laboratorio alla società», Flavia Franconi, docente del Dipartimento di Scienze del Farmaco dell’Università di Sassari dove è stato attivato il primo dottorato europeo di Farmacologia di genere.
- Professoressa Franconi, cosa si intende per farmacologia di genere?
«La Farmacologia di genere fa parte di una branca della medicina che studia le risposte ai farmaci in funzione del genere. Uso il termine genere piuttosto che sesso per ricomprendere anche le variazioni sociali che influenzano il sesso: il modo di rapportarsi della società verso un essere di sesso femminile varia, rispetto a quello maschile, fin dalla culla; dunque la risposta biologica varia anch’essa in funzione dell’apporto culturale che giunge dalla società in risposta all’essere maschio e femmina. Per capirci meglio, anche le mamme degli animali hanno un comportamento diverso di fronte a un figlio maschio o femmina».
- Perché è importante distinguere tra i generi?
«Innanzitutto perché le donne sono le più grandi consumatrici di farmaci. Soffrendo più di malattie dolorose, anche per via delle mestruazioni, consumano più antidolorifici; inoltre un terzo delle donne in età fertile pratica la contraccezione orale mentre il venti per cento delle donne in menopausa si sottopone alla terapia ormonale sostitutiva. Sono vere e proprie terapie i cui effetti interagiscono con quelli di altri farmaci. E anche con i rimedi botanici di cui le donne fanno largo uso. Basti pensare che l’iperico, che è il rimedio più venduto al mondo, può portare alla perdita dell’efficacia degli antifecondativi orali. Man mano che proseguiamo negli studi ci accorgiamo di quanto aumentino anche le differenze di genere e del rilievo che assume l’intero ciclo riproduttivo della donna».
- Quali sono le differenze più evidenti?
«Sono legate al metabolismo dei farmaci e dunque dipendenti dagli enzimi, più espressi nella donna rispetto all’uomo; inoltre tendenzialmente la donna metabolizza meglio degli uomini».
- Come la società influenza il comportamento farmacologico?
«Quando le donne vanno dal medico vengono loro prescritti più medicinali che agli uomini, per esempio. E ancora, il modo che la donna ha di riferire al medico è diverso da quello che usa l’uomo e da ciò seguono prescrizioni diverse.
Le donne - sempre da uno studio americano - non riescono a soggettivizzare i sintomi, dicono “sto male” e il medico ha più difficoltà a capire la sintomatologia del caso. Inoltre la donna si esprime con più emotività».
- Perché i farmaci sono meno studiati nelle donne?
«Intanto perché l’analisi di genere è costosa. Bisognerebbe non solo raddoppiare i casi, ma moltiplicarli in funzione della complessità del ciclo riproduttivo della donna e dell’età. Oggi il numero di donne reclutato nella terza fase della sperimentazione è aumentato, ma è inutile se vengono mischiate agli uomini e le statistiche non vengono redatte secondo il genere. Bisogna anche dire che le donne entrano con più difficoltà negli studi clinici, perché hanno da fare: andare tre volte al mese e farsi controllare per chi lavora, ha figli e una casa da gestire è più che difficile. L’impegno, anche secondo le direttive della Organizzazione mondiale della sanità e del Ministero della Salute, deve essere quello di trovare nella società civile il modo migliore perché le donne abbiano accesso alle miglior cure possibili».
- C’è anche una questione etica.
«Certo, se non si studiano i farmaci nella donna, è etico somministrare quei farmaci alla donna?»
- Quale metodologia si propone, allora?
«È uno dei punti di grande discussione quello delle linee guida per la sperimentazione di genere. I modelli sperimentali sono da inventare. Sono uscite però le prime linee guida da un recente incontro a Maastricht per le quali bisogna indicare se nella ricerca vengono usate cellule di maschio o di femmina e in quale fase del ciclo estrale, eventualmente, è stato fatto il trapianto.
Mentre per ciò che riguarda le donne si richiede un accurato studio del metabolismo dei farmaci nel ciclo mestruale e nelle eventuali terapie contraccettive o della menopausa».
- Ancora non abbiamo parlato di gravidanza.
«Già, il buco nero. In realtà non sono mai stati studiati i farmaci in relazione alla gravidanza che pure è momento centrale nella vita della donna e per giunta anche di frequente associato alla depressione. In linea generale è giusto evitare i farmaci, ma molte patologie come l’ipertensione o la depressione non lo consentono. Purtroppo oggi si va un po’ alla cieca e non è giusto. Ogni farmaco in gravidanza è una storia a sé per le enormi trasformazioni del corpo della donna e gli effetti sul nascituro. La verità è che curando meglio le donne si curano meglio tutti quanti».
Giulia Clarkson
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