Sebastiano, il pittore che gareggiò con i Maestri

l’Unità 17.2.08
Sebastiano, il pittore che gareggiò con i Maestri
di Renato Barilli

TIZIANO E RAFFAELLO furono i suoi rivali. Una mostra riporta in luce l’opera del Luciani, detto del Piombo. Nato a Venezia, operò a Roma. Fu lui a inventare la maniera moderna di raffigurare i volti

Tra le tante mostre inutili o ripetitive che si tengono nel nostro Paese, per fortuna ce ne sono talvolta alcune del tutto necessarie, perfino provvidenziali: di quest’ultima specie è senza dubbio la retrospettiva dedicata a Sebastiano del Piombo (1485-1547) visibile ora a Roma, Palazzo Venezia (fino al 18 maggio, cat. Motta), da dove si trasferirà a Berlino, Gemäldegalerie. A curarla sono i responsabili delle due istituzioni, Claudio Strinati e Bernd Wolgang Lindemann, affiancati da tanti altri validi studiosi. Sebastiano Luciani, veneziano di nascita, nel primo periodo della sua attività, fino all’andata a Roma nel 1511, era scivolato via dall’eletta schiera di grandi rappresentanti che Giorgio Vasari aveva raccolto sotto l’etichetta di «maniera moderna», guardandosi bene dal far uso della fuorviante etichetta di Rinascimento. Infatti, se si vanno a vedere da vicino i campioni di quella squadra, aperta da Leonardo, con al centro Giorgione, Raffaello e Michelangelo, e alle ali Tiziano e Correggio, vi si trova la fondazione della modernità in pittura, cioè di una perfetta concezione di naturalismo, che resterà a dominare in Occidente fino alle soglie del Novecento, quando infine sarà abrogata dalle avanguardie storiche. Ebbene, quella splendida modernità fu solo «nostra», stabilita nel triangolo Firenze-Roma-Venezia, mentre gli altri Paesi, d’Europa e dell’Italia stessa, non la ebbero, o vi giunsero con un ritardo di quasi un secolo. E i nomi di base stavano proprio in quelli annunciati con magnifica sicurezza dal Vasari, ma appunto non mancava di figurarvi il nostro Sebastiano, degno di sedere subito alla destra di colui che quella modernità aveva impiantato sulla Laguna, ricavandola dalla rivoluzione leonardesca, Giorgione. Infatti nel suo periodo veneziano si mostra come il miglior allievo dell’artista di Castelfranco, tanto che se fosse rimasto nella Serenissima, avrebbe inquietato assai il primato conseguitovi da Tiziano. In fondo, i due si erano spartiti equamente l’eredità giorgionesca, Tiziano cogliendone la capacità di impostare composizioni vaste, movimentate, immerse in cieli alti e azzurri (prima di andare a insabbiarle in stringenti primi piani, come sarebbe accaduto nella sua ultima fase). Viceversa Sebastiano stringe, afferra qualche personaggio centrale, ne fa il perno dell’intero dipinto. Si veda per esempio una Cerere, custodita proprio nel museo di Berlino, con quella figura posta lungo l’asse centrale, a spartire luce e tenebre, nel segno del più morbido sfumato leonardesco. Inutile davvero, per tanto trionfo del pittoresco, andare a scomodare il nome del tedesco Dürer, presente in quegli anni a Venezia, ma per far lezione a chi voleva essere «duro» nel disegno quanto lui, per esempio al Lotto, che infatti ben capì che doveva andarsene dalla Laguna, lasciandola alla gara dei due eredi legittimi della lezione giorgionesca, appunto Sebastiano e Tiziano. Il primo dà il meglio di sé, sempre negli anni veneziani, nelle quattro portelle del S. Bartolomeo, nicchie incaricate proprio del compito di concentrare la luce sui santi protagonisti, ciascuno eretto lungo l’asse centrale, quasi come un pannello solare intento ad assorbire luce, a farla cagliare sugli abiti. Quasi un corpo a corpo coi personaggi, che gioca d’anticipo sull’«ultimo Tiziano», in un momento in cui invece il Vecellio preferisce diluire le scene, sciorinarle all’aria aperta. L’uno stringe, concentra, l’altro allarga, porta fuori.
Ma poi Sebastiano accetta l’invito del banchiere Chigi che lo vuole a Roma, dove il Nostro resterà dal 1511 fino alla morte, ottenendo, dopo il Sacco di Roma, l’incarico di guardasigilli presso la Curia pontificia, da cui quel curioso nomignolo del Piombo. A Roma, in realtà, egli va per contrastare un campione di pittoricismo estremo come lui, cioè lo stesso Raffaello, ma gli succede un guaio, nel quadro delle contese che nell’Urbe vedevano opposti il Sanzio e Michelangelo: il Nostro fu reclutato dal secondo contro il primo, ma non certo per maggiore affinità stilistica. Nasceva l’insostenibile pretesa che il Buonarroti fornisse al suo «creato» disegni o cartoni per rimediare a una sua intrinseca debolezza in tale ambito, ma non si vede in che cosa a Sebastiano questi pretesi doni potessero servire, dato che a Roma egli resta quello che era già a Venezia, cioè un magnifico campione del migliore pittoricismo ricavato da Leonardo e Giorgione, come tale assolutamente alieno dal preoccuparsi troppo del disegno. E infatti nella produzione romana del Nostro spiccano soprattutto i ritratti, cioè, guarda caso, uno dei temi che risultano più distanti dall’arte michelangiolesca, laddove il miglior esito di Sebastiano in questo ambito, il Ritratto del Cardinale Ferry Carondolet, non per nulla è stato attribuito a lungo proprio al suo rivale Raffaello. E se proprio si vuole portare la contesa tra i due in questo campo, è forse Sebastiano a vincere, si veda l’Uomo in armi, custodito a Hartford, volto che fugge in avanti nei secoli, raggiunge un fascino romantico o realista degno di Géricault o di Courbet. E in effetti Sebastiano risulta tanto preso dal compito di affondare lo sguardo sui dati fisionomici, da trascurare la rifinitura dei dipinti. Abiti, armature, perfino braccia e mani talvolta sono condotte in modi sommari, quasi rimanendo alla fase di abbozzo.

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