Le torture d'America nell'indifferenza del mondo

Le torture d'America nell'indifferenza del mondo

La Repubblica del 21 febbraio 2008, pag. 1

di Adriano Prosperi

Domani un convegno in­ternazionale riunito a Ro­ma, nelle sale dell'Acca­demia dei Lincei metterà a con­fronto storici di diversi Paesi sul­la storia delle Inquisizioni, spa­gnola, portoghese e romana. Nessuna delle relazioni previste si occuperà di un argomento che una volta era una presenza ob­bligata nelle immagini e nei di­scorsi sull'Inquisizione (eccle­siastica ma anche laica): la tortu­ra. Persone private della libertà senza alcun preavviso, scompar­se dalla loro casa senza lasciar traccia, chiuse in isolamento per lunghi periodi, infine interroga­te con la severa "quaestio" - la tortura. Tutto questo è oggi ma­teria di archeologia giuridica e gli storici della giustizia se ne sono occupati abbastanza. Ma la pa­rola non ha perso il suo potere evocativo. Ancora oggi, chi vuoi denunciare il vilipendio delle persone e dei loro elementari di­ritti può ricorrere al mito storico dell'Inquisizione: così ha fatto il regista Milos Forman in un film (L'ultimo inquisitore) che, dietro la favola di un tempo lontano, fa trasparire la tragedia novecentesca dell'Europa orientale.



Nella storia europea della giu­stizia la svolta che ha lasciato al­le sue spalle la tortura ha anche nomi italiani, tra tutti quelli no­tissimi di Cesare Beccaria e Pie­tro Verri; e la battaglia settecentesca per una migliore ammini­strazione della giustizia ha il nome di chi, come Jeremy Bentham, sostenne allora che solo la trasparenza e la pubbli­cità dei processi potevano cancellare l'arbitrio e la prepotenza e che soltanto il tribunale della pubblica opinione era in grado di dare forma umana e regola ci­vile all'amministrazione della giustizia. Oggi il tribunale della pubblica opinione siede in permanenza nel soggiorno delle abitazioni, davanti al piccolo schermo della televisione.



Qui ognuno è autorizzato a im­maginarsi giudice delle tante piccole e grandi vicende trattate nei tribunali del nostro Paese e del mondo intero. Ci si chiede spesso se questo sia un progresso o un imbarbarimento della giustizia. Il dubbio è lecito. Lo schermo televisivo - specialmente in Italia - riversa sugli in­terni domestici particolari di storie atroci senza rispetto per chi le ha sofferte o per chi le guarda, facendosi gui­dare spesso da istinti sadici appena coperti da un velo di moralismo ipocrita.



Ma oggi il dubbio che si tratti di imbar­barimento rischia di diventare una cer­tezza. Abbiamo assistito a una descri­zione realistica di che cosa sia quella speciale tortura che si chiama "water-boarding" e di come sia stata impiega­ta per far confessare i prigionieri del carcere statunitense di Guantanamo. Abbiamo anche appreso che le prove ottenute con quelle torture saranno proposte come valide in giudizio. Esa­miniamo queste due distinte notizie e chiediamoci quale sia stata l'eco che hanno suscitato nel tribunale della pubblica opinione.


Che cosa accade quando la tortura si svolge sotto gli occhi della televisione e viene vista contemporaneamente in tutto il mondo? La risposta è: nulla. Il tribunale della pubblica opinione non ha fatto una piega. Dov'è finita l'onda­ta di vergogna che per qualcosa di simi­le travolse le istituzioni della Francia intera ai tempi della guerra d'Algeria? Non risulta che alla notizia ufficiale dell'impiego della tortura del "water-boarding" ci siano state proteste o manifestazioni di piazza di cittadini, sin­goli o associati in leghe o in partiti, né reazioni ufficiali delle istituzioni, dei governi, dell'Unione Europea, dell'Onu. Nessuna delle maggiori istituzioni culturali o delle supreme autorità reli­giose del mondo occidentale ha ritenu­to per ora di dover spendere una paro­la a questo riguardo. Eppure in quelle immagini si sono incontrate e scontrate la storia e la cronaca, le ragioni ulti­me per cui si parla di civiltà e di barba­rie e le ragioni contingenti che coinvol­gono le vite umane e il destino del mon­do . Il progresso sulla strada della tutela dei diritti dell'individuo è passato sto­ricamente at­traverso il riget­to della tortura come metodo di indagine e l'af­fermazione del diritto di ogni accusato ad un giusto processo dove possa pre­sentarsi e difen­dersi con tutte le garanzie di una legge equa. Questo è il più importante fon­damento su cui poggiano le isti­tuzioni. Una so­cietà democra­tica si regge sul­la convinzione che la libertà e i diritti delle sin­gole persone vi sono garantiti, che si abita in un paese come cit­tadini e non co­me sudditi. È questo il "plebi­scito di ogni giorno", secondo la celebre de­finizione di Ernest Renan, che rende tale una nazio­ne. Ed è questa la certezza che guida le missioni umanitarie in Paesi dove quei diritti sono assenti o patiscono offesa. Perché è morto il maresciallo Giovanni Pezzulo lontano dalla sua famiglia, im­pegnato in un'opera umanitaria che ci rende fieri una volta tanto di essere ita­liani? Chi è impegnato a sostenerne il sacrificio e a incoraggiare i progressi della solidarietà tra i popoli non può chiudere gli occhi davanti alla scena della tortura, perché essa mette in dub­bio il significato e il valore dell'opera che le democrazie occidentali dicono di vo­ler svolgere in quelle regioni. È sulla via illuminata idealmente dalla fiaccola di una antica e solenne divinità del mondo occidentale - quella della Giustizia - che hanno proclamato di porsi le campagne intraprese da corpi militari e civili del nostro e di altri paesi fuori dei loro confini. Ci si dirà: ma perché stupirsi? Sapevamo da tempo della prigione di Guantanamo e delle pratiche abnormi che vi si svolgevano. Avevamo visto nei reportages le immagini di uomini dal volto coperto e dalle membra legate portati come oggetti in un luogo remoto e incontrollabile, una terra di nessuno fuori del territorio statunitense, e lì chiusi in gabbie per subire interrogatori che era facile immaginare privi di ogni forma legale. Ma allora c'era un'attenuante, per quanto discutibile. L'opinione pubblica, sotto l'incubo della strage dell'11 settembre, era ancora prigioniera di quella che il giurista cattolico Francesco Carrara definì la "nefasta Sirena" della difesa della società. A quell'idea della difesa sociale è succeduta quella del diritto alla vendetta, pagata al prezzo di innumerevoli altre vite innocenti. E si sono succeduti l'uno dopo l'altro attentati alle libertà individuali e alla dignità umana: meno libertà, tolleranza zero, scontro di civiltà — ecco le parole d'ordine che hanno avvelenato di sentimenti di sospetto e di odio la convivenza civile. Ma oggi un altro e più importante gradino è stato disceso sulla scala della civiltà giuridica: i torturatori sono sbarcati sul territorio metropolitano e hanno chiesto per la loro turpe opera la sanzione legale del sistema giudiziario americano; hanno proposto che le confessioni scaturite dalle bocche di uomini terrorizzati assumano valore di prova in un legittimo processo. Se questo accadesse, il velo sugli occhi della Giustizia scolpita da James Earle Fraser davanti alla Suprema Corte di Washington nell'atto di essere contemplata dalla Nazione diventerebbe un velo di vergogna. E le proteste contro le offese ai diritti umani in Cina perderebbero valore. Quanto a noi italiani, se nessuna autorità di questo Paese — il presidente del Consiglio, il ministro della Giustizia, i nostri rappresentanti nelle istituzioni di governo europee, i nostri rappresentanti all'Onu - avrà niente da dire a nostro nome su questo tema, dovremo cancellare dai libri la memoria di Beccaria e di Verri; e dovremo prepararci a chiedere perdono agli antichi giudici della Santa Inquisizione se per un paio di secoli abbiamo dubitato di loro.

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