Dal Tiepolo a Rothko: evoluzione rosa

l’Unità 28.12.07
Dal Tiepolo a Rothko: evoluzione rosa
di Marco Di Capua

AL PARTICOLARE TONO del colore che ha preso il nome dal pittore veneziano, Calasso ha dedicato un libro. Uno spunto per tracciare un percorso monocromatico attraverso la storia dell’arte

Prima dell’epoca dei brevetti, cioè prima dello stupendo blu Klein, si sono impressi solo a forza di stile, nella memoria ottica del mondo, il rosso Tiziano (non Valentino) e il rosa Tiepolo. La connessione quasi karmica di un colore col nome di un pittore ti fa pensare come anche quel colore abbia amato quel pittore. Che l’abbia scelto, non so se mi spiego: giungendo dall’anonimato ha desiderato accasarsi, e si è legato a uno solo.
Il che non è mica sempre così. Kandinsky, per esempio, ha diffusamente parlato di tutti i colori, li ha corteggiati a lungo, ma si può forse dire che sia stato corrisposto da qualcuno di essi in modo esclusivo? Sono le prime cose che mi sono venute in mente leggendo Il rosa Tiepolo, il libro che Roberto Calasso ha dedicato al grande pittore veneziano del 700 (pp. 320, euro 32, Adelphi). Dove quel colore, il rosa, è percepito appena come un’essenza di energia, un bagliore che migra, come la fiamma di una candela già mezzo disciolta a una nuova (tipica metafora del processo di reincarnazione), in certe pagine di Proust: sulla vestaglia di Odette, sul mantello da sera della duchessa di Guermantes, nella fodera di una vestaglia di Albertine.
Per poi riapparire, sempre per Calasso, negli affreschi terminali di Palazzo Reale a Madrid - là c’è uno straccio rosa che sventola in cima a un pennone - ed estinguersi col suo celebre autore, anomalie entrambi, sopravvivendo sotto mentite spoglie solo sulle labbra dei mercanti di tessuti, gli unici ormai a dire: rosa Tiepolo.
Aperta parentesi, e senza andare troppo lontano guardiamoci attorno: il rosa è un colore che amano sia Paul Gauguin (mostra al Vittoriano) che Mark Rothko (mostra al Palazzo delle Esposizioni). Il primo lo incastra tra i prediletti gialli e gli adorati rossi nonché tra gli ammirati blu-viola: è il colore della strada per l’Idillio a Tahiti e dei fiori pendenti sul Mese di Maria. Il secondo lo abbandona tra gli aranci e i bianchi della sua prima fase astratta quando, infelicissimo e melanconicamente ebraico, si addentra in un universo elegante e drammatico tutto grigi, marroni e neri presaghi, per non uscirne mai più. Rosa è addirittura un intero periodo (tutto felicità classica e sentimentalità iberica dopo le tetraggini di quello blu) di Picasso, mentre poi diventa corpo monumentale e femminile con Matisse e il suo Nudo rosa. Chiusa parentesi.
Ma per quanti siano i motivi che conducano un colore a discendere come una grazia sull’opera di un artista, questi restano nell’imponderabile, e parlarne troppo non si può. Così ho cercato di capire le ragioni di una predilezione evidente e più espressa, quella di Calasso per Tiepolo. E le virtù tiepolesche, le qualità qui tirate in ballo, secondo me sono queste. Abituati come siamo a schiere di artisti che si presentano come grandi pensatori oltre che come sommi incapaci, Tiepolo fa la sua figura: egli non pensa ma agisce, opera, crea. Non parla di sé, sa tacere, la sua biografia è neutra: incredibile per noi, eccellenti intenditori di noi stessi, quando d’altra parte non siamo nessuno (accidenti, e questa chi l’ha detta?). Gli basta un incarico, una commissione, l’assegnazione di un soffitto da mutare in cielo, nei più bei cieli fatti a mano da un pittore, e Tiepolo fa meraviglie. La bravura, l’estro e l’invenzione, la capacità di eseguire rapidamente qualsiasi cosa, la leggerezza e un caleidoscopio di gesti sono talenti che a un certo punto (ma quando è stato?) caddero in sospetto: accademia! scenografia! Tra sé e l’opera Giambattista non pone ostacoli. L’arte è la facilità difficile a farsi. E lui è il maestro della sprezzatura, quella specie di rarissimo dono di cui seppe parlare in modo indimenticabile Cristina Campo ne Gli imperdonabili. A Calasso piace Tiepolo, che è il principe degli inattuali (non è antico né moderno, la modernità l’ha rimosso), dei laterali, dei refusées, coloro per i quali l’arte - la letteratura? - è assoluta, la storia è fantasmagoria e la vita teatro. Accanto a sé, in questa bella parzialità contromano e contropelo rispetto alle mode e alle voghe, Calasso vede Baudelaire, un certo atteggiamento reattivo di Baudelaire, mentre difende Tiepolo dal pregiudiziale tribunale di Roberto Longhi e del suo principale testimone d’accusa, Caravaggio.
Se ho capito un po’ Calasso, ma magari mi sbaglio, lui è uno che se vede una figura dipinta sopra un muro o un soffitto o una tela, la prende sul serio, ci crede. Si chiede chi sia e cosa faccia: che favola raccoglie attorno a sé. Ogni quadro è un racconto potenziale che va svolto: ne è prova il tratto metodologico di questo libro, l’unico possibile, il face to face tra scrittura e immagini. Questa è idolatria, naturale reverenza verso la figura, proprio come quella che per Calasso sentiva Tiepolo. Lo dico con ammirazione, ovvio. Perché se la vita è teatro (e non televisione o cronaca nera o sociologia), prendere sul serio il teatro - o quei suoi fermo-immagine che la pittura ci mostra - vuol dire prendere sul serio anche ciò che tu pensi sia l’essenza, una rifrazione fugace e profonda, della vita. Il suo apparire non retoricamente «vero» ma artefatto, folgorante, calibrato, spettacolare, intenzionale, misterioso. Illuminante. Non so se mi spiego. Ora: capite bene che tutto ciò non è che vada per la maggiore. In gran parte, la cultura d’avanguardia, o ciò che di essa marcescendo ci domina, è cresciuta sopra una nota di disprezzo per il «letterario», il «decadente», il «misticheggiante» (questi, i soliti capi di accusa), salvo poi nutrire nostalgie segrete per tutto ciò, lancinanti come fitte intercostali.
A Madrid, alla fine, Mengs soppianta Tiepolo. Il quale scompare, ed è subito dimenticato. Ma non è emozionante il fatto che di lì a poco lo vendichi proprio Francisco Goya? La sveltezza, la mercurialità intelligente del luminoso pittore degli arazzi fa fuori l’imbonitore neoclassicista. Proprio col giovane Goya, la felice stravaganza tiepolesca, quella sua gran festa, lentamente scopre il suo fondo pauroso, fatale. E come per Rothko, il rosa diventa nero.

E il rosso di Tiziano sarà in mostra a Venezia
Intorno alla metà del 500, già quasi sessantenne, Tiziano scopre un nuovo modo di dipingere: il colore si stende veloce e libero sulla tela e si sovrappone in corpose pennellate, le forme si scompongono, si accentua una grande sensualità e contemporaneamente una profonda spiritualità. Con una tecnica straordinariamente anticipatrice crea una pittura teatrale che sembra legarsi all’opera del Tasso e agli scritti di Ariosto degli anni ’30 del 500. A questa stagione di Tiziano sarà dedicata una mostra che, dal 26 gennaio, esporrà alle Gallerie dell’Accademia di Venezia 28 capolavori dipinti dal 1550 sino alla morte (1576). E le immagini proseguono oltre la mostra, nelle collezioni permanenti delle Gallerie dell’Accademia, dove si incontrano i contemporanei, Giorgione, Veronese e Tintoretto.

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