Una diga inghiottirà Hasankeyf, villaggio meraviglia del mondo
Una diga inghiottirà Hasankeyf, villaggio meraviglia del mondo
Luisa Morgantini
31 luglio 2007, Liberazione
La costruzione della diga di Ilisu sta per sommergere uno dei tesori della Turchia sud-orientale curda. Hasankeyf è un esempio di cultura mesopotamica nel triangolo compreso tra Diyarbakir, Batman e Mardin; è un museo all'aperto di 12mila anni, arroccato sulle sponde rocciose del Tigri.
Le sovrapposizioni di civiltà e culture dell'intera regione si mostrano nelle tracce di antichissimi insediamenti umani, con le centinaia di grotte, nell'elegante minareto della moschea El-Rizk e, sulla riva opposta, le tombe monumentali, una cupola su cui sono visibili le tessere di ceramica azzurra che ricordano la vicina arte persiana.
Oggi tra le vestigia di Hasankeyf vivono pastori e agricoltori curdi, ma anche artigiani, venditori di souvenir, e Mehmet che ci serve il pane e il kebab in un piccolo ristorante sulle rocce, di fronte ad una vista mozzafiato. Anche loro rischiano di sparire. Mehmet che è nato lì dice che non vuole andarsene, ma tutte le manifestazioni e le proteste non sono servite a nulla: «L'unica speranza - dice - è che le banche straniere non continuino il finanziamento del progetto». Mehmet è innamorato della zona, e non solo perché c'è il suo lavoro, ma, dice, «non posso pensare di non poter vedere più il sole che illumina le grotte, pescare nel fiume, parlare con tante gente che viene da lontano e guarda con meraviglia questo tesoro che si vuole distruggere». Il governo ha promesso il trasferimento e la ricollocazione della popolazione: «Hanno detto che trasferiranno e riprodurranno il minareto, anche le tombe, anzi stanno già esportando sassi, ma sarà tutto falso». Il cameriere Said dice che per lui non cambierà molto: «Non sono nato qui, e se mi daranno un lavoro e se la diga dovesse davvero servire a dare acqua ai campi, non ci soffrirei; le grotte non sono abitate adesso, molta gente se ne è andata negli anni della guerra, avevano paura, c'erano sempre i soldati».
Sono davvero molti anni che si parla della diga: Ruken, che mi accompagna, non era ancora nata e oggi è una delle attiviste che cercano di trovare vie alternative allo sviluppo dell'area senza che si costruisca la diga. Nel 1980 il governo turco ha avviato il Gap, Progetto Idrico per l'Anatolia Sud-Orientale, che prevede la costruzione di dighe e centrali idroelettriche lungo l'alto corso del Tigri e dell'Eufrate. Alcune sono già state costruite e si calcola che 320 villaggi siano stati evacuati, molto spesso con la forza, bombardamenti, incendi. Della diga di Ilisu si è ritornati a parlare solo nel 1999 dopo le dichiarazioni del cessate il fuoco unilaterale da parte del movimento di guerriglia, la condanna di Ocalan e la sospensione dell'emergenza militare. Venne creato un consorzio internazionale, guidato dalla banca svizzera Sulzer AG, disposta a finanziare e realizzare i lavori. Ma molte furono le mobilitazioni internazionali che sembrava avessero avuto l'effetto voluto: far desistere le ditte coinvolte, far rinascere le speranze di trovare vie alternative alla diga lavorando al contempo per un rilancio turistico di Hasankeyf. Un'illusione.
Oggi il governo ha ripreso il progetto e vuole fare presto, sostiene di voler terminare i lavori della diga entro il 2014. La Turchia è uno dei paesi al mondo con più progetti di dighe, la maggior parte e le più grandi delle quali proprio in territorio curdo: il Kurdistan turco è ricchissimo d'acqua e spesso tale ricchezza lo ha condannato a essere vittima di risvolti sociali, economici e politici gravi. La lotta militare per l'indipendenza della popolazione curda, prima, e la lotta di questi ultimi anni per la democrazia e il riconoscimento dell'identità politica e culturale curda è costata molto alla popolazione curda e turca. Migliaia di morti, una repressione brutale e il carcere per migliaia e migliaia di curdi da parte del governo turco. Negli anni '90, in una campagna militare contro il partito curdo Pkk, le forze di sicurezza turche distrussero 3.428 villaggi curdi: più di tre milioni di persone furono costrette ad abbandonare le terre d'origine, per essere sfollati nelle periferie delle grandi città, in improvvisati campi profughi come a Istanbul o a Dyarbakir, o come migliaia di attivisti costretti a fuggire dalla Turchia per non essere torturati e condannati ad anni e anni di prigione.
A questi si aggiungeranno gli sfollati provenienti dalle vallate sommerse dalle acque delle dighe previste dal Gap. Infatti, la diga di Ilisu continuerà l'opera di spopolamento: finiti i lavori sarà la seconda diga del paese, con una capacità di circa 10 kmu00B3 e una superficie di 313 kmu00B2, sommergerà 6mila ettari di terre arabili e il bacino idrico che si formerà inonderà una valle lunga 136 km, con una produzione di 3833 Gwh l'anno per 300 milioni di dollari di ricavati. Il rovescio della medaglia è ovviamente drammatico: oltre 289 siti d'inestimabile valore archeologico verranno spazzati via e più di 200 insediamenti umani saranno sommersi, costringendo 55mila persone allo sradicamento, alla perdita del lavoro, delle case o al trasferimento forzato in altre zone del paese, esposte all'esclusione sociale e all'emarginazione. Anche dal punto di vista ambientale la diga di Ilusu presenta delle falle e per questo viene duramente osteggiata dalle oltre 72 organizzazioni (centri culturali, municipalità locali, volontari, sindacati, associazioni per i diritti umani) attive in Turchia che chiedono la sopravvivenza di Hasankeyef, denunciando, oltre ai danni sulle popolazioni locali, i rischi di crolli della roccia su cui sorge il villaggio, non adatta a sostenere il carico generato dall'invaso, per la riduzione della bio-diversita a causa dei cambiamenti indotti negli ambienti fluviali, il rischio di scomparsa della fauna locale e quelli conseguenti all'aumento di umidità sui resti archeologici nonché sul rischio di variazione nel regime climatico dell'area e sulla possibilità della diffusione di infezioni e malattie, malaria in primis.
La diga di Ilisu, infine, nascerà a soli 65 km dal confine con la Siria e l'Iraq e sono imprevedibili le ripercussioni che il controllo delle acque del fiume da parte della Turchia avranno sugli equilibri geo-politici in una regione così precaria: la gestione e il trattamento delle acque di un fiume come il Tigri che attraversa più Paesi, dovrebbero essere regolamentati da leggi internazionali se si vuole allontanare il rischio di ripercussioni sulle popolazioni civili, che si vedranno diminuire la quantità e la qualità delle scorte di acqua, e quello di altri conflitti causati, questa volta non dal petrolio ma dalla preziosissima risorsa acqua. Se gli scopi delle dighe, è vero, sono la produzione di energia idroelettrica e l'utilizzo irriguo, è anche vero che la Turchia è ottava al mondo per energia geotermica utilizzabile, ma ne sfrutta solo il 2,7%, è ai primi posti in Europa come potenziale eolico sfruttabile, oltre ad avere un enorme potenziale solare.
Come si fa a non ascoltare allora le motivazioni di Ruken che parla di una diga a così breve distanza dai confini che può servire come area di sicurezza per possibili infiltrazioni di terroristi di Al Qaeda o di guerriglieri del Pkk e che in nome della sicurezza vengono ancora una volta sacrificati gli interessi della popolazione curda, che continua a subire limitazioni della propria libertà di espressione e del diritto di esistere come minoranza, a cominciare dal divieto di utilizzare la propria lingua nelle amministrazioni locali?
In questi mesi si vedrà se la mobilitazione di movimenti, politici e cittadini in Turchia come all'estero si riuscirà a salvare Hasankeyf. Intanto in Italia, attivisti di varie associazioni ecologiste e per i diritti umani (tra cui l'Associazione verso il Kurdistan, Arci e Legambiente, Donne in Nero, oltre che rappresentanti della Campagna per la Riforma per la Banca Mondiale) si sono già mobilitati, dandosi appuntamento lo scorso 18 luglio davanti alla sede di Unicredit a Milano per chiedere ai dirigenti della banca di ritirare il sostegno economico al progetto della diga. La Unicredit, infatti, attraverso la società controllata Austria Bank Creditanstalt è coinvolta nel finanziamento per un totale di 280 milioni di euro. Una petizione è tuttora in corso in Italia (www.acquasuav.org; acquasuav@yahoo.it) come in altri Paesi Europei e in Germania e in Svizzera alcune Ong hanno consegnato 37mila firme contro tale progetto. Un primo risultato delle mobilitazioni comunque si è raggiunto nelle scorse settimane con il ritiro della Zuercher Kantonalbank che ha ceduto alle pressioni dei cittadini svizzeri.
Vedremo se con il nuovo parlamento e la presenza della minoranza curda, in tutto 22 deputati, si riuscirà a fare in modo che Hasankeyf non sparisca, portando avanti nello stesso tempo la lotta democratica per i diritti della popolazione curda. Chissà forse davvero come diceva Leyla Zana, quando ancora era in prigione e mentre veniva giudicata al processo, il futuro della Turchia è quello dell'arcobaleno.
Liberazione, 29 luglio 2007
Luisa Morgantini
31 luglio 2007, Liberazione
La costruzione della diga di Ilisu sta per sommergere uno dei tesori della Turchia sud-orientale curda. Hasankeyf è un esempio di cultura mesopotamica nel triangolo compreso tra Diyarbakir, Batman e Mardin; è un museo all'aperto di 12mila anni, arroccato sulle sponde rocciose del Tigri.
Le sovrapposizioni di civiltà e culture dell'intera regione si mostrano nelle tracce di antichissimi insediamenti umani, con le centinaia di grotte, nell'elegante minareto della moschea El-Rizk e, sulla riva opposta, le tombe monumentali, una cupola su cui sono visibili le tessere di ceramica azzurra che ricordano la vicina arte persiana.
Oggi tra le vestigia di Hasankeyf vivono pastori e agricoltori curdi, ma anche artigiani, venditori di souvenir, e Mehmet che ci serve il pane e il kebab in un piccolo ristorante sulle rocce, di fronte ad una vista mozzafiato. Anche loro rischiano di sparire. Mehmet che è nato lì dice che non vuole andarsene, ma tutte le manifestazioni e le proteste non sono servite a nulla: «L'unica speranza - dice - è che le banche straniere non continuino il finanziamento del progetto». Mehmet è innamorato della zona, e non solo perché c'è il suo lavoro, ma, dice, «non posso pensare di non poter vedere più il sole che illumina le grotte, pescare nel fiume, parlare con tante gente che viene da lontano e guarda con meraviglia questo tesoro che si vuole distruggere». Il governo ha promesso il trasferimento e la ricollocazione della popolazione: «Hanno detto che trasferiranno e riprodurranno il minareto, anche le tombe, anzi stanno già esportando sassi, ma sarà tutto falso». Il cameriere Said dice che per lui non cambierà molto: «Non sono nato qui, e se mi daranno un lavoro e se la diga dovesse davvero servire a dare acqua ai campi, non ci soffrirei; le grotte non sono abitate adesso, molta gente se ne è andata negli anni della guerra, avevano paura, c'erano sempre i soldati».
Sono davvero molti anni che si parla della diga: Ruken, che mi accompagna, non era ancora nata e oggi è una delle attiviste che cercano di trovare vie alternative allo sviluppo dell'area senza che si costruisca la diga. Nel 1980 il governo turco ha avviato il Gap, Progetto Idrico per l'Anatolia Sud-Orientale, che prevede la costruzione di dighe e centrali idroelettriche lungo l'alto corso del Tigri e dell'Eufrate. Alcune sono già state costruite e si calcola che 320 villaggi siano stati evacuati, molto spesso con la forza, bombardamenti, incendi. Della diga di Ilisu si è ritornati a parlare solo nel 1999 dopo le dichiarazioni del cessate il fuoco unilaterale da parte del movimento di guerriglia, la condanna di Ocalan e la sospensione dell'emergenza militare. Venne creato un consorzio internazionale, guidato dalla banca svizzera Sulzer AG, disposta a finanziare e realizzare i lavori. Ma molte furono le mobilitazioni internazionali che sembrava avessero avuto l'effetto voluto: far desistere le ditte coinvolte, far rinascere le speranze di trovare vie alternative alla diga lavorando al contempo per un rilancio turistico di Hasankeyf. Un'illusione.
Oggi il governo ha ripreso il progetto e vuole fare presto, sostiene di voler terminare i lavori della diga entro il 2014. La Turchia è uno dei paesi al mondo con più progetti di dighe, la maggior parte e le più grandi delle quali proprio in territorio curdo: il Kurdistan turco è ricchissimo d'acqua e spesso tale ricchezza lo ha condannato a essere vittima di risvolti sociali, economici e politici gravi. La lotta militare per l'indipendenza della popolazione curda, prima, e la lotta di questi ultimi anni per la democrazia e il riconoscimento dell'identità politica e culturale curda è costata molto alla popolazione curda e turca. Migliaia di morti, una repressione brutale e il carcere per migliaia e migliaia di curdi da parte del governo turco. Negli anni '90, in una campagna militare contro il partito curdo Pkk, le forze di sicurezza turche distrussero 3.428 villaggi curdi: più di tre milioni di persone furono costrette ad abbandonare le terre d'origine, per essere sfollati nelle periferie delle grandi città, in improvvisati campi profughi come a Istanbul o a Dyarbakir, o come migliaia di attivisti costretti a fuggire dalla Turchia per non essere torturati e condannati ad anni e anni di prigione.
A questi si aggiungeranno gli sfollati provenienti dalle vallate sommerse dalle acque delle dighe previste dal Gap. Infatti, la diga di Ilisu continuerà l'opera di spopolamento: finiti i lavori sarà la seconda diga del paese, con una capacità di circa 10 kmu00B3 e una superficie di 313 kmu00B2, sommergerà 6mila ettari di terre arabili e il bacino idrico che si formerà inonderà una valle lunga 136 km, con una produzione di 3833 Gwh l'anno per 300 milioni di dollari di ricavati. Il rovescio della medaglia è ovviamente drammatico: oltre 289 siti d'inestimabile valore archeologico verranno spazzati via e più di 200 insediamenti umani saranno sommersi, costringendo 55mila persone allo sradicamento, alla perdita del lavoro, delle case o al trasferimento forzato in altre zone del paese, esposte all'esclusione sociale e all'emarginazione. Anche dal punto di vista ambientale la diga di Ilusu presenta delle falle e per questo viene duramente osteggiata dalle oltre 72 organizzazioni (centri culturali, municipalità locali, volontari, sindacati, associazioni per i diritti umani) attive in Turchia che chiedono la sopravvivenza di Hasankeyef, denunciando, oltre ai danni sulle popolazioni locali, i rischi di crolli della roccia su cui sorge il villaggio, non adatta a sostenere il carico generato dall'invaso, per la riduzione della bio-diversita a causa dei cambiamenti indotti negli ambienti fluviali, il rischio di scomparsa della fauna locale e quelli conseguenti all'aumento di umidità sui resti archeologici nonché sul rischio di variazione nel regime climatico dell'area e sulla possibilità della diffusione di infezioni e malattie, malaria in primis.
La diga di Ilisu, infine, nascerà a soli 65 km dal confine con la Siria e l'Iraq e sono imprevedibili le ripercussioni che il controllo delle acque del fiume da parte della Turchia avranno sugli equilibri geo-politici in una regione così precaria: la gestione e il trattamento delle acque di un fiume come il Tigri che attraversa più Paesi, dovrebbero essere regolamentati da leggi internazionali se si vuole allontanare il rischio di ripercussioni sulle popolazioni civili, che si vedranno diminuire la quantità e la qualità delle scorte di acqua, e quello di altri conflitti causati, questa volta non dal petrolio ma dalla preziosissima risorsa acqua. Se gli scopi delle dighe, è vero, sono la produzione di energia idroelettrica e l'utilizzo irriguo, è anche vero che la Turchia è ottava al mondo per energia geotermica utilizzabile, ma ne sfrutta solo il 2,7%, è ai primi posti in Europa come potenziale eolico sfruttabile, oltre ad avere un enorme potenziale solare.
Come si fa a non ascoltare allora le motivazioni di Ruken che parla di una diga a così breve distanza dai confini che può servire come area di sicurezza per possibili infiltrazioni di terroristi di Al Qaeda o di guerriglieri del Pkk e che in nome della sicurezza vengono ancora una volta sacrificati gli interessi della popolazione curda, che continua a subire limitazioni della propria libertà di espressione e del diritto di esistere come minoranza, a cominciare dal divieto di utilizzare la propria lingua nelle amministrazioni locali?
In questi mesi si vedrà se la mobilitazione di movimenti, politici e cittadini in Turchia come all'estero si riuscirà a salvare Hasankeyf. Intanto in Italia, attivisti di varie associazioni ecologiste e per i diritti umani (tra cui l'Associazione verso il Kurdistan, Arci e Legambiente, Donne in Nero, oltre che rappresentanti della Campagna per la Riforma per la Banca Mondiale) si sono già mobilitati, dandosi appuntamento lo scorso 18 luglio davanti alla sede di Unicredit a Milano per chiedere ai dirigenti della banca di ritirare il sostegno economico al progetto della diga. La Unicredit, infatti, attraverso la società controllata Austria Bank Creditanstalt è coinvolta nel finanziamento per un totale di 280 milioni di euro. Una petizione è tuttora in corso in Italia (www.acquasuav.org; acquasuav@yahoo.it) come in altri Paesi Europei e in Germania e in Svizzera alcune Ong hanno consegnato 37mila firme contro tale progetto. Un primo risultato delle mobilitazioni comunque si è raggiunto nelle scorse settimane con il ritiro della Zuercher Kantonalbank che ha ceduto alle pressioni dei cittadini svizzeri.
Vedremo se con il nuovo parlamento e la presenza della minoranza curda, in tutto 22 deputati, si riuscirà a fare in modo che Hasankeyf non sparisca, portando avanti nello stesso tempo la lotta democratica per i diritti della popolazione curda. Chissà forse davvero come diceva Leyla Zana, quando ancora era in prigione e mentre veniva giudicata al processo, il futuro della Turchia è quello dell'arcobaleno.
Liberazione, 29 luglio 2007
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