L’effetto serra ci costa 60 miliardi

L’effetto serra ci costa 60 miliardi

La Stampa.it del 24 gennaio 2008

di Marco Zatterin
Tre euro a testa ogni settimana sino al 2020 per combattere l’effetto serra, cosa che in totale fa 60 miliardi. Oppure 3mila euro l’anno, e il rischio di avvelenare il pianeta, se non si farà nulla. La Commissione Ue vara l’atteso pacchetto energia e invita gli europei, e i loro governi, a pronunciarsi su cosa sia meglio fare contro il riscaldamento globale e la dipendenza energetica. «C’è chi dirà che costa troppo - commenta il presidente dell’eurogoverno, José Barroso - ma è facile vedere che il prezzo dell’inazione è dieci volte superiore a quello richiesto per mettere in piedi la strategia che proponiamo». È la grande sfida dell’Europa che vuole diventare leader mondiale nella lotta ai gas nocivi.

L’obiettivo si chiama "20-20-20", ovvero ridurre del 20% rispetto al 1990 le emissioni di biossido di carbonio e produrre almeno il 20% di energia da fonti rinnovabili, compreso un obiettivo del 10% per i biocarburanti nel settore dei trasporti. Tutto entro il 2020, così la cifra è tonda. Diviso in cinque progetti, il pacchetto presentato ieri dovrà passare al vaglio del Parlamento europeo e del Consiglio. Barroso promette effetti positivi per l’economia, sottolinea che il greggio alle stelle è una pessima notizia e annuncia un milione di posti di lavoro. Vorrebbe l’approvazione entro il 2008. Ma le resistenze non mancano. La logica dell’operazione è quella del libero mercato. Lo dimostra il primo pilastro del piano, ovvero la Borsa dei permessi di emissione che dovrà sostituire dal 2013 l’attuale sistema di scambio delle quote di CO2 (Ets).

Nel nuovo contesto gli Stati non dovranno più presentare a Bruxelles dei piani nazionali annuali d’assegnazione (gratuita) dei permessi per ciascun impianto industriale. Sarà invece istituito un registro unico delle emissioni per tutta l’Ue e con quote assegnate a pagamento, in base ad aste aperte annuali. Qualsiasi operatore comunitario potrà comprare quote in qualsiasi Stato. Si stima che il valore di questo interscambio sarà di 50 miliardi l’anno, destinati ad iniziative di crescita comuni. Nell’Ets riformato entreranno settori oggi non considerati: aviazione, alluminio, chimica. Alle industrie energivore esposte alla concorrenza internazionale - acciaio, alluminio, chimica, vetro - sarà offerta una quota consistente di permessi gratuita che andrà azzerandosi sino 2020. Sono escluse le centrali elettriche, che possono trasferire i costi sugli utenti.

E il rischio delocalizzazione? «Abbiamo diverse opzioni», dice il commissario all’Ambiente, Stavros Dimas, suggerendo la possibilità di dazi sulle le merci dei paesi inquinatori per scoraggiare l’esodo. Un secondo provvedimento fissa gli obiettivi nazionali differenziati di riduzione dei gas serra nei settori fuori dall’Ets (come trasporti, agricoltura e riscaldamento). Le rinnovabili sono la terza mossa. Bruxelles fissa limiti nazionali differenziati per la quota di risorse alternative sul consumo di energia. È previsto un incremento per tutti (5,75% del totale) più un ulteriore aumento in base al pil pro capite. Per l’Italia la sfida è arrivare al 17% dei consumi, mentre i gas serra emessi dall’insieme dei settori fuori Ets dovranno essere ridotti del 13% rispetto al 2005. Sul CO2, siamo in ritardo: invece di sfoltire le emissioni del 6,5% rispetto al 1990 come previsto, c’è stata un’impennata del 13%.

Chiudono il pacchetto il quadro giuridico per la "cattura e stoccaggio" del CO2 (con finanziamenti pubblici) e le linee guida per gli aiuti statali all’ambiente e alle rinnovabili. Generalmente positiva l’accoglienza, con le associazioni ambientaliste convinte che si potesse fare di più. Ora parte il confronto politico. È il caso di augurare buona fortuna al pacchetto. Comunque sia, è la migliore delle scelte possibili in un club europeo dalle esigenze diverse e spesso divergenti.

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