Correggio e il trionfo del corpo morbido

l’Unità 1.6.08
Correggio e il trionfo del corpo morbido
di Renato Barilli

LA GALLERIA BORGHESE ospita una mirabile mostra dedicata al genio emiliano, nato Antonio Allegri: una splendida serie di tele e disegni ne ricostruisce il percorso dai dipinti giovanili a quelli della maturità

Ho appena finito di tessere le lodi di Claudio Strinati, soprintendente del polo museale romano, che già un nuovo petalo egli aggiunge alla sua corolla. Si tratta della mostra dedicata al genio emiliano nato a Correggio, Antonio Allegri (1489-1534), una cui splendida serie di tele e disegni compare alla Galleria Borghese, a cura di Anna Coliva, nel quadro delle competenze che la Soprintendenza romana assegna ai suoi funzionari. Questo affascinante abbinamento tra i capolavori stanziali della Galleria ed ospiti d’eccezione si era già presentato in altre occasioni, qui puntualmente recensite, come l’indagine su Raffaello nel momento di passaggio da Firenze a Roma, o sul Canova, in accompagnamento a uno dei più bei trofei della Borghese, la Paolina Bonaparte. E altre prestigiose accoppiate del genere sono annunciate dalla Coliva. Tuttavia, dopo un devoto e dovuto omaggio a combinazioni di questo livello, mi si permetta di insinuare qualche dubbio. La Borghese è già di per se stessa un luogo di alta densità, asfissiante per il premere di tanti capolavori, non so quindi fino a che punto sia opportuno trovare a fatica qualche margine per accogliere appunto gli ospiti, anche se d’eccezione. In particolare, non so se una simile coesistenza sia giovevole per le folle di visitatori, cui riesce difficile distinguere tra il permanente e il temporaneo, anche se un’opportuna segnaletica cerca di prenderli per mano. Nelle occasioni precedenti c’era il valido motivo che nel permanente della Galleria si trovano opere essenziali alla perspicuità di un certo percorso, ma d’altra parte inamovibili, o tali da fornir
e un inevitabile termine di paragone con le presenze temporanee. Però non è così per il Correggio, di cui, a conti fatti, la Borghese conserva unicamente una Danae, seppure splendida. Scatta però un altro motivo, l’opportunità di condurre un confronto con le opere permanenti sulla base di un tema specifico che dovrebbe giustificare l’accostamento, tema reperito, nell’occasione specifica, in un confronto con l’Antico. Ma diciamolo subito, questo è un tema pretestuoso, o marginale. Quando l’Allegri, attorno al 1518, compie il suo viaggio a Roma, che oggi nessuno più osa negare, da cui trae l’incitamento per l’alto cammino che poi compirà a Parma, lo fa per riempirsi la vista dei capolavori di Michelangelo e di Raffaello, cioè per ricavare un magnifico messaggio di modernità. Non lo interessano i marmi polverosi, dato che la missione assegnatagli dalla storia, semmai, è di imprimere su di essi un mirabile tocco che li restituisca a una vita calda, palpitante, sensuosa e perfino sessuale, rorida di profumi, forse perfino di afrori di pelli sudate per l’esposizione al caldo estivo delle terre padane. È quanto ci dice il perfetto osservatore di quella rivoluzione in atto che sarà il Vasari, quando appunto teorizzerà l’avvento di una maniera moderna, con Raffaello e Michelangelo al centro, e alle ali il Correggio e Tiziano. Si aggiunga al giudizio del Vasari l’arguta battuta recata, in tempi assai più prossimi a noi, da Roberto Longhi, che si è valso della frase felice con cui, a quanto pare, Picasso usava presentare il collega Braque, dicendo che era la sua moglie, senza doppisensi sessuali. E il Correggio, dice magistralmente il Longhi, era proprio la moglie di Michelangelo, ossia ridava palpiti di vita alla muscolatura, essa sì forse alquanto succube dell’antico, ostentata dai Profeti e dalle Sibille del Buonarroti.
Espressa questa cauta riserva di taglio organizzativo, per cui, ritengo, sarebbe meglio che il polo museale romano conducesse le sue convincenti proposte, poniamo, a Palazzo Venezia, a costo di far subire ai capolavori della Borghese qualche momentanea delocazione, riconosciamo pure che il percorso correggesco fornito in quelle gremite stanze è perfetto, se solo ci si assoggetta allo slalom. Ci sono quasi al completo i dipinti giovanili, le Madonne e Bambino in cui il grande emiliano prende le distanze dal Mantegna, o già imposta le figure di Santi e Re Magi in lunga catena, rifiutando i ritmi allineati come parate di belle figurine già cari agli uomini del Quattrocento, per andare verso il coinvolgimento, il dinamismo dei corpi. E poi vengono i mirabili raggiungimenti della corta maturità concessa all’artista, dove compare l’alta sintesi tra Michelangelo e Raffaello, propendendo però decisamente a favore di quest’ultimo, e preparando una miscela esplosiva che poi rimbalzerà nei secoli fino ai Carracci, a Rubens, a Courbet, a Renoir. Per rendere omaggio al contenitore romano tutti i grandi musei del mondo si sono prodigati, le tele provengono dal Louvre, dal Prado, dalla National Gallery di Londra, e ovviamente da Brera, e da Parma stessa. In ogni caso trionfano i valori del corpo, della carne, sia nelle ore del dolore, quando per esempio i Quattro Santi della tela parmense cadono sotto i colpi degli scherani, ma sembrano teneri fiori di bosco recisi da maldestri raccoglitori. E sempre da Parma viene un Compianto sul cristo morto in cui le carni si afflosciano su se stesse, in un tenero deliquio. Altrove però, quando si tratta di visitare i costumi libidinosi degli dei dell’Olimpo, è come se il Nostro penetrasse nel tepore delle alcove, a spiare da voyeur i segreti delle carni femminili, aperte alla profferta morosa, maliziosamente propiziata da Cupidi anch’essi morbidi, sinuosi e insinuanti.

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