Guardare gli etruschi per vedere noi stessi

l'Unità 9.5.07
Guardare gli etruschi per vedere noi stessi
di Marco Innocente Furina

DUE MOSTRE a Siena e a Chiusi riuniscono per la prima volta, nei luoghi della loro formazione, i due nuclei fondamentali della Collezione Bonci Casuccini, una delle più importanti raccolte private italiane

A scuola abbiamo tutti studiato la storia di Porsenna, il potente re di Chiusi che cinse d’assedio Roma per rimettere sul trono Tarquinio il superbo scacciato dai cittadini che volevano instaurare la Repubblica. Lo storico dell’età d’Augusto, Tito Livio, racconta che il re etrusco, ammirato dal coraggio degli assediati - chi non ricorda Muzio Scevola che punì col fuoco la mano rea di aver fallito il colpo contro l’aggressore? - tolse le tende e lasciò liberi i romani. Probabilmente le cose andarono diversamente - lo lascia intendere Plinio il vecchio che, meno fazioso di Livio, ci informa che gli etruschi interdirono ai romani persino l’uso del ferro (il minerale con cui si fabbricavano le armi) - ma la storia, si sa, la scrivono i vincitori e coi secoli Roma conquistò un impero, mentre Chiusi s’addormentava fra le belle colline toscane che la circondano. Ma ai tempi del re Porsenna era una delle più importanti città d’Etruria. «Clevsi» (questo il suo nome etrusco) faceva parte della dodecapoli, la lega che riuniva le maggiori città-stato del tempo e si voleva addirittura fondata da Cluso, figlio di Tirreno, il principe lidio che, secondo Erodoto, guidò la migrazione di quell’antico popolo dalle coste dell’Asia minore fino in Italia. Insomma, una grande città dell’epoca di cui tuttavia, almeno in superficie, non è restato granché perché «gli etruschi costruivano tutto in legno» e per questo le loro città «sono svanite completamente, come i fiori». Sono rimaste «solo le tombe, i bulbi». E sono le tombe che anche a Chiusi ci hanno restituito la bellezza e il mistero di questa straordinaria civiltà.
Tutto comincia (o ricomincia) nei primi decenni dell’800 quando un proprietario terriero locale, Pietro Bonci Casuccini, grazie ai ritrovamenti sui terreni di famiglia, mette insieme il nucleo originale della collezione. Alla sua morte per evitare che gli eredi vendessero tutto al Louvre o al British Museum intervenne lo Stato italiano. Per la favolosa cifra di 50 mila lire il ministero della pubblica istruzione si aggiudicò i diecimila pezzi (diecimila!) della raccolta e li spedì a Palermo. Fatta l’Italia bisognava fare gli italiani, anche dimostrando che tutti gli abitanti della penisola condividessero la stessa cultura. Così gli «etruschi» finirono al museo A. Salinas del capoluogo siciliano. Ma il demone dell’archeologia si impadronì anche di un altro Bonci Casuccini, Emilio, pronipote di Pietro, che alla fine dell’800 tornò a scavare i terreni aviti. La formazione di questa seconda raccolta (conservata al museo archeologico di Siena) fu guidata dal grande storico dell’arte Ranuccio Bianchi Bandinelli, allora impegnato nella redazione della sua tesi di laurea proprio sulle necropoli chiusine.
Oggi, a distanza di 150 anni, la mostra dal titolo Etruschi. La collezione Bonci Casuccini, riunisce per la prima volta, nei luoghi della loro formazione, i due nuclei fondamentali di una delle più importanti e ricche raccolte private italiane. La rassegna, (in programma sino 4 novembre prossimo), propone una selezione di 200 reperti e si articola in due sedi: il complesso museale di Santa Maria della Scala a Siena e il museo archeologico di Chiusi. Nella più vasta sede senese si possono ammirare sculture in pietra di pregevole fattura (sarcofagi, urne, cippi, statue) e dei magnifici esempi di ceramica etrusco-greca figurata. Il percorso espositivo è inoltre arricchito dalla ricostruzione della Tomba del colle Casuccini, anche detta Tomba del Leone, un ipogeo a più camere impreziosito da un ciclo di affreschi raffiguranti scene di banchetto, giochi funebri e danze, risalente al 460 A.C. Gli affreschi della Tomba - oggi non visitabile per motivi di conservazione - furono riprodotti da Guido Gatti poco dopo la sua scoperta nel 1833. Conservati al museo archeologico di Firenze, nessuno li aveva più potuti ammirare dalla disastrosa alluvione del ’66. Una possibilità invece restituita dalla rassegna senese, che grazie alle riproduzioni del Gatti, permette ai visitatori di «entrare» nella Tomba e apprezzarne dall’interno la volumetria e i dipinti.
Piccola ma di gran pregio, la sezione chiusina è interamente dedicata alla scultura arcaica degli antichi tirreni. E dalle botteghe artigiane della città di Porsenna viene lo straordinario Plutone. La statua, uno dei capolavori assoluti dell’arte etrusca, rappresenta una figura maschile seduta, il cui busto cavo doveva servire probabilmente a contenere le ceneri del defunto.
Chi verrà a visitare questa mostra non si aspetti, come sempre quando si parla di arte etrusca, le grandi composizioni formali della civiltà classica; la perfezione, la gravità, la solennità dell’arte greco-romana. «Nell’istinto etrusco sembra esserci stato - scrive David H. Lawrence - un effettivo desiderio di conservare intatto il naturale senso di comicità della vita». Una civiltà quella etrusca che per l’autore de L’amante di lady Chatterley, racchiude, più d’ogni stratificazione successiva, l’anima profonda degli italiani. «L’Italia di oggi è più etrusca che romana nelle sue vene; e lo sarà sempre. In Italia l’elemento etrusco è come l’erba del campo ed il germogliare del grano: sarà sempre così». Per questo, se non potete andare a Siena e Chiusi, andate a Palermo, visitate Villa Giulia a Roma o i musei di Perugia, di Firenze, di Tarquinia, di Volterra. Insomma, andate ovunque ci siano gli etruschi, andateci per riscoprire, in quei visi, e in quei sorrisi, un po’ di noi stessi e delle nostre radici.

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