Baudelaire, quei fiori recisi dalla censura

l’Unità 10.6.07
Baudelaire, quei fiori recisi dalla censura
di Antonio Prete

150 ANNI FAusciva la celebre raccolta Les Fleurs du mal che fu sottoposta a furiosi attacchi, processata e condannata: sei poesie furono cancellate dal libro. E bisognerà aspettare il 1949 perché quella sentenza venga annullata

Alla base della condanna una morale fondata sulla censura della corporeità e della lingua che interroga il desiderio

Le poesie tagliate poi uscite a parte mostrano come il dialogo tra poeta e lettore sia più forte di ogni intromissione tribunalizia

Un libro di versi, un processo, una condanna per oltraggio alla pubblica morale e al buon costume. Uno sguardo sulla poesia obliquo, infastidito, perbenista: di questo testimoniano, ancora oggi, centocinquanta anni dopo il processo, le sei poesie condannate, incastonate nella splendida corona degli altri Fiori col titolo Pièces condamnées. Un titolo che dice di uno sguardo dell’epoca, ansioso di preservare - col ricorso alla tutela giuridica, e alla sanzione di un tribunale - l’orizzonte di una morale ipocritica, e comune. Una morale fondata sulla censura della corporeità, sulla censura della lingua che interroga il desiderio nella sua incolmabilità e anche nella sua oscurità, nei suoi silenzi, nelle sue sfide.
La prima edizione delle Fleurs du mal è messa in vendita dagli editori Poulet-Malassis et De Broise il 21 giugno del 1857. E, già dopo qualche giorno, alcuni attacchi ben orchestrati su Le Figaro creano intorno alle Fleurs du mal lo stesso clima che s’era creato nei mesi precedenti intorno a Madame Bovary di Flaubert. Né mancano, sulla stampa moralista, i confronti tra le due opere. Negli articoli su Le Figaro e nell’atto ufficiale di denuncia indirizzato alla Direction générale de la sûreté publique quattro poesie sono accusate di oltraggio alla morale religiosa, e ben nove di «attente» alla morale pubblica. Il sequestro degli esemplari del volume già messi in vendita è il primo atto giudiziario cui seguirà rapidamente il processo. Che è celebrato il 20 agosto 1857 presso il Tribunal de la Seine. La requisitoria è affidata al sostituto Ernest Pinard, il giudice che mesi prima aveva tenuto la requisitoria contro Madame Bovary. La difesa è affidata dal poeta all’avvocato Gustave Chaix d’Est-Ange. È per costui che Baudelaire ha preparato un dossier: di questo ci restano le Notes et documents pour mon avocat e Petits moyens de défense tels que je les conçois, uno scritto - di consigli e suggerimenti - che Sainte-Beuve aveva indirizzato al poeta in vista del processo.
Fragile è la difesa dell’avvocato, ma certo non veemente la requisitoria di Monsieur Pinard. Il quale così conclude, rivolto ai giudici: «Siate indulgenti con Baudelaire, che è persona di natura inquieta e priva di equilibrio. Siatelo anche con gli stampatori, che si mettono al coperto dietro l’autore. Ma, condannando almeno alcune poesie del libro, date un avvertimento resosi necessario». E tuttavia l’intera requisitoria espone, nei limiti dichiarati di un giudizio d’ordine soltanto giuridico, la sequenza dei versi «offensivi», aggiungendo alle sei poesie che saranno di fatto espunte altri passaggi, in particolare da Le Reniement de saint Pierre, Abel et Caïn, Les Litanies de Satan, Le Vin de l’assassin e anche Le Beau Navire. La questione posta dal magistrato è se la rappresentazione di quel male che è nel titolo possa indurre alla distanza, alla repulsione, o possa provocare una qualche attrazione. La sua eloquenza ha intorno a questo punto un passaggio molto chiaro: «Crediamo forse che certi fiori dal profumo vertiginoso siano buoni da respirare? Il veleno che emanano non allontana da essi: sale alla testa, ubriaca i nervi, dà turbamento e vertigine, e può anche uccidere». Profumo e veleno: il giudice accoglie due figure ricorrenti e significative dell’immaginazione baudelairiana per dislocarle dall’ordine del linguaggio poetico all’ordine di una moralità che sa i netti confini tra il bene e il male. Una sottrazione di tensione metaforica, un misconoscimento della natura del linguaggio poetico, ma anche, allo stesso tempo, la percezione che nel «libro atroce» trascorre un’energia in grado di scompigliare le convenzioni di una morale borghese.
Sovrapporre il codice alla poesia è un atto non solo improprio ma violento. Passerà quasi un secolo, prima che, il 31 maggio 1949, una Corte di cassazione decida di annullare quella indebita sovrapposizione e quella sentenza.
Un tribunale, dunque, pretende di purificare un libro di versi, cancellando alcune bellissime poesie, nonostante Baudelaire, negli appunti per la difesa stesi per il suo avvocato abbia più volte ripetuto che un libro di versi deve essere giudicato nell’insieme: «Un libro di poesia deve essere valutato nel suo insieme e attraverso la sua conclusione». Circa la questione della morale, ecco un altro appunto per l’avvocato: «Ci sono diverse morali. C’è la morale positiva e pratica alla quale tutti devono obbedire. Ma c’è la morale delle arti. Che è tutt’altra, e, da che mondo è mondo, le Arti lo hanno dimostrato bene». E, ancora, concludendo sulla morale beghina e conformista: «Ormai si faranno solo libri consolanti, libri che servano a dimostrare che l’uomo è nato buono, e che tutti gli uomini sono felici. - Ipocrisia abominevole!».
Il processo, oltre a comminare al poeta e agli editori una consistente ammenda, condanna sei poesie alla sparizione dal libro. Il quale nella fine d’agosto del 1857, conclusosi il processo, viene rimesso in circolazione con un vuoto.
Un vuoto di versi che, volendo segnalare l’avvenuta purificazione del testo, di fatto finisce col segnalare l’altra, profonda mancanza che trascorre in tutti i versi del poeta: una ferita che è solitudine aspra del vivente, lontananza dell’altrove, condanna al regno dell’opacità e della ripetizione. Era forse per questa percezione dell’eloquenza poetica racchiusa in quel vuoto di versi, in quella sottrazione di musica violentemente introdotta nel libro bellissimo e atroce, e non certo per fierezza di collezionista, che Edmond Jabès, nella sua casa parigina, mi mostrava, alcune volte, tra i pochi libri salvati nell’esilio, proprio quella prima edizione delle Fleurs du mal «condannata», mancante delle sei poesie. Il libro con una ferita. Il libro che diceva di una mancanza, della mancanza.
Le sei poesie condannate, che mai il loro autore avrebbe posto in relazione di contiguità, vengono restituite, dal giudizio severo e moralistico di un tribunale, a un’unità fittizia, sancita solo dalla censura. Ma proprio questa unità fittizia l’autore, dopo la condanna, polemicamente accettò, quando nel febbraio del 1866 decise di stampare le sei poesie proprio come «pièces condamnées». L’edizione, che, con il titolo Les Épaves de Charles Baudelaire, comprendeva anche altre nuove poesie, uscì a Bruxelles, con la dicitura Amsterdam (nel frontespizio un’acquaforte di Félicien Rops). Conservando nelle edizioni successive quella unità soltanto di derivazione censoria, le sei poesie hanno ogni volta posto la questione del rapporto tra la lingua della poesia e la lingua della pubblica e convenzionale morale, e hanno mostrato come il dialogo tra il poeta e il lettore sia più forte di ogni intromissione tribunalizia e avvenga in quella regione dove il pensiero e l’immaginazione sono la stessa cosa, il sapere e l’esistenza respirano, insieme, nella libertà della lingua, delle sue figure, della sua musica.

Ecco l’«oltraggio» dei versi

E le braccia e le gambe e le cosce e le reni
- ch’eran lisce come olio, morbide come cigno -
prendevano i miei occhi, tutti intenti, e sereni.
E intanto il ventre e i seni, frutti della mia vigna,

amorevoli più degli Angeli del male,
mi turbavano l’anima, ch’era tutta assopita,
la sbalzavano via dal cristallo regale
dove lei solitaria se ne stava, e quieta.

...

E il tuo corpo s’inarca
piega, inclina
come nave sull’onda
che rolla ai fianchi
e i suoi pennoni china
sull’acqua e li affonda

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