Armeni. Diario di una deportazione

La Repubblica 3.11.07
Armeni. Diario di una deportazione
Anticipazioni/la testimonianza di un sopravvissuto al genocidio
"Mia madre supplicava, chiedeva che colpissero lei e non mio padre"
di Vahram Altounian

La località detta Pozanti era montagnosa e deserta. Non c´era nessuno. Da lì ci hanno deportati verso la città di Tarsus. Abbiamo pagato due lire e a condizione che mio padre, Haïg ed io andassimo a piedi, dal momento che la strada passava attraverso le montagne. Avevano proibito a tutti di salire sui carri, soltanto mamma era rimasta sopra.
In breve, abbiamo impiegato due giorni per raggiungere la stazione di Tarsus. La città era piena di soldati e non lasciavano entrare i deportati, a eccezione dei turchi.
La deportazione è ricominciata, ma in treno. Ci hanno di nuovo stipati dentro i vagoni: erano circa le nove di sera. Da Tarsus a Yenice poi Zeitunli, e in seguito Tcharkir-Pasha, Adana, Ceyhan, Toprakkale, poi Osmaniye. A una distanza di quindici minuti da Mamure il treno si è fermato. Ci è stato detto che, a partire da lì, non esisteva più ferrovia: «Scendete!». In breve, siamo scesi e lì dove siamo scesi non abbiamo trovato niente e nessuno. I deportati sono smontati tutti dai vagoni. Quella notte, intorno all´una, le due, ci siamo coricati separati, gli uni lontani dagli altri, poiché ci eravamo persi. Ci siamo ritrovati la mattina.
Tuttavia la deportazione è ripresa. In quel luogo non c´era nulla, mio padre ha capito che ci avrebbero depredati. Abbiamo venduto la macchina per cucire Singer a un gendarme per la somma di cinque lire. Fino alla località detta Islâhiye abbiamo noleggiato tre cammelli, ognuno a una lira.
Quella giornata l´abbiamo trascorsa sulle montagne dei giavours (gli "infedeli" armeni o altri cristiani, n.d.r.). Abbiamo anche dormito sulle montagne. L ´indomani abbiamo ripreso il cammino. La sera siamo arrivati a Hasanbeyli. Ma la salute di mia madre peggiorava.
Il giorno seguente siamo stati costretti a noleggiare un asino per mia madre. Noi tre, invece, eravamo a piedi. In breve, siamo giunti a Islâhiye verso le otto, ma ci hanno impedito di rimanere. Abbiamo pagato altre tre monete d´oro al proprietario dei cammelli e siamo ripartiti.

* * *

Mio padre era molto malato. E molto abbattuto. Mio fratello ed io trasportavamo legna. Cercavamo di sopravvivere. Ma presto finirono anche le cavallette, erano state mangiate tutte. E la deportazione non aveva fine. Abbiamo smontato la tenda e di nuovo: «Forza, dovete andare ».
In quel momento mia madre ha affermato: «Abbiamo un malato molto grave, partiremo la prossima volta». Abbiamo chiesto di poter rimanere. «Ma come osate parlare?», ha esclamato un gendarme colpendo mio padre alla testa. Mia madre supplicava, chiedeva che picchiassero lei e che lasciassero stare mio padre. Al che il gendarme ha colpito mia madre per poi allontanarsi verso le altre tende.
Ma a che scopo? Che cosa ne è di un uomo gravemente malato che venga percosso?
Sei giorni dopo, il giorno della morte di mio padre, hanno ripreso a deportare.
Picchiavano nostra madre. Mio fratello ed io piangevamo. Non potevamo farci nulla, erano come una muta di cani. Dicevano a mia madre: «Il tuo malato è morto». E mia madre: «Partiremo quando lo avremo sepolto». E quelli rispondevano: «No, farete come gli altri». Gli altri, infatti, abbandonavano i morti e la notte li divoravano gli sciacalli.
Ho capito che così non andava e che occorreva fare qualcosa. Ho preso un flacone da settantacinque dirhem, l´ho riempito di olio di rosa e sono andato dal gendarme che comandava la deportazione. Gli ho detto: «Lasciateci stare per oggi, partiremo con gli altri con il prossimo convoglio». Gli ho offerto il flacone, lui ha accettato. Siamo rimasti un altro giorno. Abbiamo scavato una fossa pagando cinque piastre al curato. Così abbiamo seppellito mio padre.
Quindici giorni dopo, la deportazione è ricominciata. La mattina mi sono svegliato, e che cosa ho visto? Stavano bruciando tutto. Ho smontato la tenda in tutta velocità e mi sono allontanato verso il fiume. Mi sono nascosto lì, avendo saputo che più in là uccidevano le persone. Poi sono tornato indietro. Ho montato la tenda, ci siamo coricati, avevamo tanta fame e sete. Ho capito che saremmo morti di fame. Ho riempito un flacone di olio di rosa da cento dirhem e l ´ho portato all ´impiegato del telegrafo della località in cui ci trovavamo. Mi ha detto: «Figlio mio, ma che cosa vuoi che me ne faccia?». Mi ha però proposto due lire turche, dicendomi di riferire la proposta a mia madre. Io gliel´ho riportata. Mia madre ha riflettuto, ha pensato che quei soldi ci avrebbero assicurato di che vivere per due mesi. Non avevamo scelta. Eravamo affamati.
Due mesi dopo, avevamo finito anche le due lire. Siamo stati costretti a vendere ancora un po´ d´olio. Stavolta un armeno ha venduto cento dirhem per lo stesso prezzo. Noi abbiamo fatto la stessa cosa, per non morire di fame. A quel punto, non ci rimase più olio di rosa. Che cosa avremmo fatto? Era il nostro pensiero fisso
La deportazione continuava e ad Hammam non rimaneva nessuno. Un giorno, hanno portato una carretta dicendoci: «Forza, partite anche voi, vi porteremo fino a Ziaret ».
Ci hanno fatti montare sul carro picchiandoci. Dopo otto ore di cammino, ci siamo resi conto di essere ancora molto lontani da Ziaret. Molti morivano lungo la strada. Eravamo senza soldi. Allora abbiamo diviso la tenda in due e ne abbiamo venduto una parte.
Siamo rimasti un giorno a Der-Zor. Abbiamo pensato che se ci avessero deportati anche da lì, ci avrebbero uccisi. Abbiamo pensato allora di fuggire. Ma se ci avessero visti, ci avrebbero uccisi.
Di lì a poco, abbiamo trovato dei compagni: eravamo diventati sette donne e due bambini. Siamo partiti. Il nostro piano era di camminare la notte e dormire di giorno, per raggiungere così Aleppo.
Traduzione di Alessia Piovanello

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